Medicina e ricerca

Coronavirus/Anziani e terapie intensive, coinvolgere i geriatri nelle scelte strategiche

di Gabriella Bettelli

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24 Esclusivo per Sanità24

In piena pandemia da coronavirus, e in tempi in cui gli anziani sono percepiti come un peso crescente per il sistema sanitario, la notizia di una donazione a beneficio del reparto di Geriatria dell'Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia infonde speranza verso il futuro e stimola profonde riflessioni, anche alla luce del recente dibattito innescato dalla diffusione di un documento "riservato" della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) sui criteri di selezione dei pazienti bisognosi di terapia intensiva quando il loro numero superi quello dei posti letto disponibili. Area di riflessione che da una parte è trasversale a tutta la medicina nella sua interezza (e quindi non di appannaggio di singole aree specialistiche), e dall'altra è meritevole – anziché di un tardivo "grido di dolore", come in proposito ebbe a dire Filippo Anelli, presidente FNOMCeO – di più tempestive azioni di denuncia e battaglie di stimolo dirette alle istituzioni, davanti al progressivo calo di risorse della sanità nel nostro Paese.

Ritenuti troppo numerosi e soprattutto inutili, gli anziani non sono certo visti, agli occhi frettolosi di gran parte del mondo moderno, come una risorsa di esperienza, conoscenza e saggezza. Malattie del corpo e della mente ne fanno purtroppo una popolazione vulnerabile, su cui ironia e mancanza di rispetto ricorrono frequentemente, mentre sempre più spesso prendono corpo discriminazioni di vario tipo basate sul semplice valore dell'età anagrafica, considerata in termini assoluti e indipendentemente dall'età biologica.

La pandemia in corso ha fatto emergere i limiti del nostro sistema sanitario, su cui per anni sono stati operati tagli indiscriminati, davanti ai quali non sempre la classe medica si è mossa a tutela dei pazienti con decisione e fermezza, e certo con molto minor passione di quanto non stia dimostrando in occasione del presente frangente. Un rapporto, pubblicato dalla fondazione GIMBE nel 2019, ha indicato che negli ultimi 10 anni l'entità dei tagli progressivamente apportati alla sanità in Italia è stata pari a ben 37 miliardi di euro: tuttavia, scrupolosi e puntuali bilanci di previsione indirizzati ai politici, magari accompagnati da dettagliate stime di proiezione dell'incremento nel consumo di risorse sempre più limitate, denunce alle istituzioni su possibili catastrofi all'orizzonte non risultano agli atti degli ultimi due decenni.

Eppure, l'evento pandemico non era imprevedibile se si guarda alle cronache, ove notizie su epidemia di Ebola, SARS, MERS, febbre virale emorragica e quant'altro puntualmente ricorrono da anni e anni. Nemmeno risulta imprevedibile se si guarda a un documento di consenso (Designing a Biocontainment Unit to Care for Patients with Seriuos Communicable Diuseases: A Consensus Statement, PW Smith e coll.) emesso nel 2006 da un gruppo di studiosi americani sulle misure da adottare per gestire il rischio infettivo in caso di malattie altamente contagiose, in cui tra l'altro vengono fornite indicazioni sia sulla necessità di predisporre negli ospedali posti letto di terapia intensiva e ventilatori meccanici da dedicare ai pazienti infettivi, sia sulle misure da adottare per poter contare su personale dotato di competenze rianimatorie da utilizzare in caso di emergenza, allo scopo di integrare il prevedibilmente sovraccaricato personale delle terapie intensive. Tale documento fu recepito a livello europeo attraverso la fondazione dell'European Network for Infectious diseases (EUNiD, un network finalizzato ad ottimizzare la capacità di risposta a eventi pandemici nei Paesi europei) che già nel 2006 individuò tra i requisiti necessari per fronteggiare le pandemie sia la presenza di strutture di terapia intensiva da utilizzare in tali casi, sia la disponibilità di personale non anestesiologico ma dotato di competenze rianimatorie, cui fare ricorso in caso di emergenza. Per non parlare di ricerche condotte interdisciplinarmente all'Università di Pavia tra infettivologi e ingegneri, sotto le illuminanti indicazioni del prof. Elio Guido Rondanelli, che mostravano l'importanza di strutture dedicate all'infettivologia – aree di terapia intensiva incluse! – alla luce degli eventi epidemici alloro in corso, tra i quali il più problematico era notoriamente l'AIDS. Fin da allora era stato individuato nel rischio infettivo pandemico uno degli scenari più drammatici della medicina moderna, nel quadro di una ciclicità infettiva che passa da un problema a quello successivo, e che solo può essere affrontato e risolto con soluzioni di sistema.

L'allarme era dunque già stato dato nel 2006, mentre sin dal 2010 era stato dimostrato in uno studio europeo che, a parte la Germania, la maggior parte dei Paesi europei non aveva ancora adottato le misure raccomandate sia dal documento americano che da quello europeo, e che ben 45 centri su 48 in Europa non erano in grado di garantire l'accesso a posti di terapia intensiva dedicati a un'eventuale emergenza pandemica. Per contro, nei centri di cura tedeschi non venivano rilevate carenze sulla disponibilità immediata o a breve termine di ventilatori, analizzatori di gas nel sangue e sistemi di monitoraggio. Questa forse è la spiegazione più plausibile circa la più bassa letalità del Covid-19 e il minor numero di contagi osservati in Germania, quantomeno alla luce dei dati all'oggi disponibili.

Davanti all'emergenza infettiva, e benché la tappa più critica del percorso terapeutico si svolga nelle terapie intensive, è alla definizione di orientamenti condivisi tra le varie discipline mediche implicate nel processo di cura che si deve mirare. Condivisione ragionata però, e soprattutto condotta al riparo del rischio che la discussione trascenda: perché non garantire che le discussioni sui massimi sistemi vengano portate al bar è imprudenza imperdonabile da parte di chi propone l'argomento, soprattutto quando si tratti di vita e di morte. Inevitabile allora che si dica "Tanto si sa che questo è quello che fanno", quando coloro di cui si parla sono gli anestesisti rianimatori.

Nessun professionista che presti la sua attività guardando in faccia la morte sente davvero la necessità di linee d'indirizzo che supportino la sua competenza e sensibilità circa criteri a cui rivolgersi per decidere che "quello no", quello può essere escluso dalle possibilità di sopravvivenza, se non per procurarsi protezione legale in caso di bisogno. Capacità organizzative, propensione alla riconversione, inventiva sono gli strumenti ai quali fare ricorso: sia perché questo i rianimatori da sempre sanno fare, sia perché, come dal di fuori è stato osservato, un posto in terapia intensiva per un personaggio influente alla fine salta sempre fuori.

Peraltro, la discussione è sul tavolo. Non solo i rianimatori però debbono esservi coinvolti, ma anche gl'infettivologi, gli epidemiologi e soprattutto – visto l'alto numero di anziani coinvolti e la maggior aggressività del coronavirus verso questa popolazione – certamente anche i geriatri: perché la risposta ai problemi bioetici e agli interrogativi posti dalla medicina delle catastrofi non può che essere corale, condivisa e unitaria, se non si vogliono minare i principi fondamentali su cui da sempre la medicina si basa e da cui trae forza, consenso e prestigio. Giusto quindi il richiamo ai principi costituzionali e del diritto, invocato in questi giorni dal Comitato Nazionale di Bioetica, davanti a criteri di selezione che più ricordano la rupe tarpea che l'inventiva di qualunque madre davanti al dilemma di dover nutrire due figli, uno dei quali più svantaggiato dell'altro. A questa inventiva gli anestesisti rianimatori attingono quotidianamente, ad esempio quando non ci sono posti disponibili di terapia intensiva ma si possono convertire letti operatori in letti di rianimazione, con buona pace delle attività chirurgiche di routine, o ponendo in essere molti altri espedienti. E' in questa dimensione che ritrova il suo più profondo significato il motto della SIAARTI "Pro vita contra dolorem semper", al quale non c'è anestesista rianimatore che non si sia rivolto, a tarda notte, di ritorno da un servizio estenuante.

Non può sfuggire il nesso tra queste considerazioni e la profonda gratitudine per una donazione che ha "selezionato" (fortunatamente al contrario), tra i tanti gruppi di pazienti, proprio i più deboli ma allo stesso tempo anche i più forti: per molti degli adulti di oggi, gli anziani sono i maestri ai quali tutti noi dobbiamo quel poco o tanto di credibilità, stima e decoro che ci siamo guadagnati. Il mio grazie di anestesista geriatra allora a questi a me ignoti benefattori: augurare loro lunga vita non sarà quindi un augurio di tristezza, solitudine e declino, ma di recuperata centralità del paziente anziano nella sanità e nella cultura nel terzo millennio.


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