Medicina e ricerca

Covid: la cura avanza tra antinfiammatori, Intelligenza Artificiale e Big Data ma in assenza di linee guida condivise

di Massimo Girardis* e Alessandra Ferretti

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24 Esclusivo per Sanità24

Nuovi trattamenti in grado di bloccare la risposta infiammatoria nei pazienti Covid gravi e in quelli meno critici, Intelligenza Artificiale e Big Data per cure sempre più personalizzate e per una gestione centralizzata del flusso dei malati, analisi quantitative che dimostrano come il vaccino riduca la probabilità di infezione dei conviventi. Sono alcune delle novità emerse dalla 40esima edizione dell’International Symposium on Intensive Care and Emergency Medicine, che si è tenuto a Bruxelles dal 31 agosto al 3 settembre 2021 e che ha riunito medici intensivisti, anestesisti e rianimatori da tutto il mondo. Dal simposio, che ha fatto il punto sullo stato e sulle opportunità dell’ampio panorama della medicina critica e d’urgenza, alcuni aspetti restano tuttavia aperti. Tra questi, il problema della non-omogeneità delle linee guida internazionali su certi trattamenti anti-Covid (vedi utilizzo dell’antivirale remdesivir) e le correlazioni ancora tutte da dimostrare tra vaccini ed eventi avversi.

Le “nuove” terapie per il Covid-19: anti JAK e anakinra
Se di “nuove” terapie si può parlare, questo vale in riferimento all’utilizzo di farmaci già in uso in altri settori della medicina che, utilizzati per la prima volta nel trattamento del Covid-19, hanno dato esiti efficaci. Parliamo degli anti JAK e dell’anakinra, farmaci con note proprietà antinfiammatorie, da anni impiegati per trattare l’artrite reumatoide, che dal Congresso di Bruxelles sono usciti “promossi” a pieni voti come standard di cura per il trattamento diadulti ricoverati con Covid-19. Anti JAK è un inibitore di enzimi detti Jak (o Janus chinasi) coinvolti nel processo infiammatorio che si riscontra anche nei pazienti affetti da Covid-19. Anakinra è invece un inibitore dell’Interleuchina-1 (IL-1), la citochina che insieme all’Interleuchina-6 (IL-6) si è dimostrata come la più coinvolta nel processo infiammatorio causato dal virus Sars-CoV-2. Entrambi i farmaci sono risultati in grado di bloccare questa risposta infiammatoria alternativamente all’utilizzo del tocilizumab o del sarilumab, due trattamenti identificati fin dal principio come efficaci nella cura dei pazienti con Covid-19. Con una differenza, però: tocilizumb, sarilumab e Anti JAK sono efficaci nei pazienti più gravi, mentre anakinra si è dimostrata vantaggiosa se somministrata prima che il paziente diventi critico.

A dimostrare sicurezza ed efficacia dell’inibitore orale selettivo della Janus chinasi (baricitinib) è uno studio di fase 3 randomizzato, controllato, in doppio cieco, con placebo, presentato al Congresso mondiale parallelamente alla sua pubblicazione l’1 settembre sulla rivista scientifica Lancet Respiratory Medicine con il titolo “Efficacy and safety of baricitinib for the treatment of hospitalised adults with COVID-19 (COV-BARRIER): a randomised, double-blind, parallel-group, placebocontrolled phase 3 trial” (https://doi.org/10.1016/S2213-2600(21)00331-3 ). Lo studio ha coinvolto pazienti arruolati da 101 centri in dodici paesi in Asia, Europa, Nord America e Sud America e ha dimostrato una riduzione della mortalità negli adulti ospedalizzati con Covid-19. Anche quello sull’utilizzo di anakinra è uno studio a doppio cieco, randomizzato, controllato di fase 3 teso a dimostrare sicurezza ed efficacia del trattamento.

Presentato al Congresso parallelamente alla sua pubblicazione su Nature Medicine il 3 settembre 2021, lo studio, “Early treatment of COVID-19 with anakinra guided by soluble urokinase plasminogen receptor plasma levels: a double-blind, randomized controlled phase 3 trial”, ha mostrato una diminuzione del 70% del rischio relativo di progressione a grave insufficienza respiratoria e una significativa riduzione della mortalità a 28 giorni con trattamento anakinra rispetto allo standard di cura (https://doi.org/10.1038/s41591-021-01499-z ).Ad oggi, dunque, l’indicazione permette di trattare i pazienti non critici con anticorpi monoclonali associati ad anakinra e quelli in condizioni severe con tocilizumab oppure sarilumab oppure Anti JAK.

Le linee guida sul Covid-19 non sono univoche: il caso del remdesivir
Le linee guida prodotte fino ad oggi sui trattamenti per il Covid-19 non sono univoche e questo provoca discordanza di trattamenti da un paese all’altro o da un continente all’altro. Uno degli argomenti più spinosi riguarda il remdesivir, antivirale approvato tra giugno e novembre 2020 sia dall’Agenzia Europea per i Medicinali (European Medicines Agency, EMA), sia dall’Agenzia statunitense per gli alimenti e i medicinali (Food and Drug Administration, FDA). Fino ad oggi le principali linee guida sono prodotte essenzialmente da tre enti: la World Health Organization (WHO, Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS), l’Infectious Diseases Society of America (IDSA, Società americana per le malattie infettive) e la Surviving Sepsis Campaign (SSC). Su molti argomenti esse trovano armonia, ma l’utilizzo del remdesivir non è tra questi argomenti. Suggerito infatti dalle linee guida americane IDSA come trattamento in associazione agli anticorpi monoclonali su pazienti prima dell’aggravamento, non è raccomandato dalle linee dell’OMS.

Anche per ovviare a queste discrepanze così lampanti, uno degli estensori delle linee guida dell’OMS, Bram Rochwerg, professore associato alla McMaster University di Hamilton (Ontario), ha annunciato la nascita di un gruppo di lavoro internazionale ad hoc, che analizzerà tutti i dati disponibili sul remdesivir per trovarne una collocazione univoca e possibilmente definitiva. Il gruppo di lavoro si avvarrà dei dati delle diverse unità operative di Terapia Intensiva anche italiane nei trial già conclusi e in quelli ancora in corso.Ad oggi, nel nostro paese, vengono prese a riferimento le linee guida dell’OMS che, per pragmaticità, vengono integrate con le raccomandazioni della Società Italiana di Analgesia, Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) in base allo stato clinico dell’ammalato. SIAARTI individua sei stadi di Covid-19, dalla malattia lieve, caratterizzata da febbre e tosse, fino allo stato di shock settico, con infezione diffusa a vari organi e valori medi di pressione sanguigna inferiori a 65. Il trattamento sarà diverso a seconda che il paziente sia domiciliato, ospedalizzato, sottoposto a erogazione di ossigeno mediante maschera oppure ventilato meccanicamente.

Medicina personalizzata?
Ancora molto tuttavia deve essere fatto per agevolare l’introduzione di una medicina personalizzata anche nel caso dei pazienti Covid-19. La prassi di seguire le categorie di pazienti descritte sopra come quasi unica indicazione di trattamento è nata dalla necessità di realizzare rapidamente, fin dall’inizio del diffondersi della pandemia, trial randomizzati controllati che includessero più persone possibili, senza dover procedere a prelievi o specificità che avrebbero ritardato enormemente le ricerche e quindi l’ottenimento dei risultati. In gioco persistono ancora molti elementi, di carattere biologico e di carattere organizzativo. Per questo uno dei prossimi ambiziosi obiettivi sarà quello di trasformare questo approccio pragmatico di emergenza in approccio personalizzato.

Il punto sui vaccini
I dati presentati al Congresso hanno confermato come in Terapia Intensiva le forme più severe di Covid-19 siano per la stragrande maggioranza (80%) a carico dei non vaccinati, con un’età media dei pazienti intorno ai 60 anni. Il punto di vista dei medici rianimatori e intensivisti è stato unanime nel definire il vaccino come “la strategia vincente”, avendo esso abbattuto, dati alla mano, le probabilità di ricovero e decesso nei pazienti vaccinati e incorsi in contagio da Covid. Sebbene molti paesi abbiano portato a Bruxelles i risultati delle vaccinazioni eseguite, tuttavia non è ancora possibile dimostrare l’esistenza o meno di una correlazione tra queste e gli eventuali eventi avversi. Per stabilirla, sarà necessaria una quantità molto più consistente di dati nel tempo che ad oggi ancora non abbiamo ancora a disposizione.

Intanto, come presentato nella “lettera all’editore”, “Effect of Vaccination on Transmission of SARS-CoV-2”, pubblicata su NEJM l’8 settembre 2021, è provato che la vaccinazione di singole persone contro la sindrome respiratoria acuta grave da coronavirus 2 protegga i membri conviventi. I ricercatori hanno studiato l’effetto della vaccinazione su operatori sanitari in Scozia (tra i primi gruppi a essere vaccinati in tutto il mondo) e i membri conviventi delle loro famiglie. Nel trial il 78,4% degli operatori sanitari aveva ricevuto almeno una dose del vaccino Pfizer-BioNTech o Oxford-AstraZeneca e il 25,1% aveva ricevuto anche la seconda dose.Lo studio dimostra come la vaccinazione degli operatori sanitari sia associata a una diminuzione dei casi documentati di Covid-19 tra i membri delle loro famiglie (https://doi.org/10.1056/NEJMc2106757 ).

Intelligenza Artificiale e Big Data
Nell’ultimo anno e mezzo il ricorso a strumenti di intelligenza artificiale ovvero l’utilizzo della tecnologia per il miglioramento delle cure ha dimostrato di aver ottimizzato l’attività quotidiana degli operatori sanitari soprattutto in termini di miglioramento delle cure e di sicurezza del paziente. Tra gli esempi che sono stati portati all’attenzione, ne scegliamo due.

Primo esempio. Con le immagini radiologiche ed ecografiche vengono costruiti dei pattern di aiuto per i medici. Come? Il radiogramma viene dapprima esaminato da una macchina che segnala il grado di probabilità di quel paziente di incorrere in una polmonite, in un’embolia polmonare e così via, sostituendosi al lavoro del medico. La “prognosi” automatica è consentita grazie ai Big Data ovvero alla disponibilità di un database di qualche milione di radiogrammi con i quali in pochi secondi viene confrontato il proprio imaging. Lo stesso vale per le ecografie: mentre il medico esegue l’ecografia, l’IA ferma l’immagine e comunica la diagnosi più probabile (vedi “Artificial Intelligence Algorithm Detecting Lung Infection in Supine Chest Radiographs of Critically Ill Patients With a Diagnostic Accuracy Similar to Board-Certified Radiologists”, in Critical Care Medicine, 2020 Jul;48(7):e574-e583, luglio 2020,https://doi.org/10.1097/CCM.0000000000004397 ).

Secondo esempio. Grazie alle trasmissioni rapidissime via cavo è possibile fare telemedicina di alto livello anche col paziente critico. In alcuni paesi come Stati Uniti e Australia, un pool di esperti di stanza in una sorta di centrale operativa può gestire anche tre o più reparti a 30 km di distanza grazie al monitoraggio costante dei parametri vitali dei singoli pazienti e ad un sistema di videocamere che inquadrano costantemente i pazienti. Gli esperti, dal loro quartier generale, forniscono le indicazioni più corrette per il trattamento di quei malati. In questo modo non è più necessario avere medici esperti presenti in loco: bastano collegamenti di telemedicina per limitare il numero di medici consulenti sul territorio. Per il futuro, negli Stati Uniti, si sta pensando come permettere a questi consulenti di evitare i turni di notte: i centri di telemedicina potrebbero venire collegati tra di loro in funzione dell’orario, per cui il consulente che lavora di giorno sulla costa del Pacifico prenderebbe in carico la Terapia Intensiva della costa est e viceversa. Si tratta in pratica un sistema molto complesso e affinato di reti.

Il Simposio di cure intensive e medicina d’urgenza
L’International Symposium on Intensive Care and Emergency Medicine è il più importante congresso al mondo di medicina intensiva e critica. Quest’anno ha contato una Faculty di 150 persone provenienti da ogni parte del globo. Con sessioni contemporanee distribuite in 10 aule per tre giorni e mezzo sono stati esplorati i principali aspetti di medicina critica e d’urgenza. L’Italia era presente con 13 scienziati, eccellenza riconosciuta nel mondo per quanto riguarda la terapia intensiva e in particolare gli argomenti dell’insufficienza respiratoria, della ventilazione meccanica, della sepsi e oggi anche del Covid-19, sul quale ha contribuito in buona parte. Presieduto dal professor Jean-Louis Vincent, uno dei padri fondatori della scienza intensivologica, affiancato dal vicepresidente italiano Fabio Taccone, il Congresso si è riunito in presenza, dopo aver realizzato l’edizione 2020 in modalità online. Il valore aggiunto della partecipazione di persona rimane il fecondo scambio personale che si sviluppa naturalmente a latere delle sessioni previste tra colleghi provenienti da ogni parte del mondo.

* Direttore Struttura Complessa di Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva 1 Azienda Ospedaliero – Universitaria Policlinico di Modena e Professore all’Università di Modena e Reggio Emilia


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