Medicina e ricerca

Le mancate diagnosi delle persone con demenza, realtà nascoste di vergogna e di dolore

di Pietro Sangiorgio *

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24 Esclusivo per Sanità24

Non è difficile scoprire, se solo si squarcia il velo di ipocrisia che copre tante vicende umane, quante famiglie con congiunti affetti da Alzheimer vivono nelle nostra comunità. Si potranno, allora, ascoltare mille storie di drammi familiari trascorsi, o attuali, tutti diversi uno dall’altro, ma accomunati da un sentimento di pudore e di vergogna, e, soprattutto dal dolore indicibile di chi le ha vissute o le sta ancora vivendo.
Il misconoscimento delle demenze, come condizione patologica, è la conseguenza tanto di un notevole ritardo nelle conoscenze scientifiche, quanto di idee e pregiudizi molto diffusi nelle culture popolari.
È significativo che, fino agli anni ottanta del secolo scorso, la nosografia delle demenze distingueva le demenze sulla base di un criterio cronologico in demenze senili e presenili, a seconda che insorgessero dopo, o prima dei 65 anni di età. Si dava in questo modo valore nosologico alla condizione senile, indipendentemente dalla natura della demenza, ponendo in secondo piano l’effettiva etiopatogenesi delle demenze. D’altro canto le certezze sulla patogenesi della Malattia di Alzheimer, la più diffusa tra le cause di demenza, restano ancora oggi incerte, non avendo ancora definito l’effettivo ruolo della proteina amiloide come fattore causale di neuro degenerazione.
Per quanto riguarda i luoghi comuni, tuttora dominanti, nell’opinione pubblica, resta, in primo piano, l’idea che la demenza sia una forma specifica di invecchiamento, e, come tale, non modificabile né curabile.
In generale, accade che sia i pazienti e i familiari, ma anche i medici di base, non sono in grado di riconoscere la differenza tra i primi segnali della malattia, come smemoratezza, disabilità funzionali, labilità emotiva e il cosiddetto normale invecchiamento. Si tende ad attribuire al naturale declino fisico degli anni, quello che, in effetti, è il subdolo inizio della malattia.
Il nichilismo terapeutico di molti medici e operatori sanitari,espressione dei dubbi sulla natura dell’Alzheimer e sulla stessa utilità di una diagnosi, la prognosi infausta, la mancanza di farmaci efficaci per la cura, e la non conoscenza di interventi socio-assistenziali e di supporto, confermano un senso comune di futilità medica e la sfiducia nel proprio operato di curanti.
Infine, ciò che è determinante nella reazione sociale alla demenza è lo stigma sociale. La demenza viene vissuta, istintivamente, sia dalle persone con demenza sia dall’opinione pubblica come una specie di pazzia, oggetto di biasimo pubblico,tale da indurre chi ne è affetto e i familiari stessi a vergognarsene e a occultarla. Lo stigma associato alla demenza è così pervasivo da portare alla stereotipizzazione di tutte le persone con demenza, come, se in qualche modo, appartenessero a una categoria indifferenziata. Questa mancanza di comprensione di ogni specifica soggettività contribuisce alla depersonalizzazione della persona con demenza, alla mancanza di empatia e alla mancanza di comprensione delle esigenze individuali di ciascuno.
Per le ragioni esposte, risulta da tutte le ricerche internazionali, che le demenze risultano assai poco riconosciute, poco diagnosticate, poco trattate e tanto meno adeguatamente gestite, sia in ambito specialistico che in ambito delle cure primarie, con evidenti differenze a seconda del livello di sviluppo dei paesi.
Nei paesi ad alto reddito (HIC) i pazienti affetti da demenza, che ricevono una diagnosi, ammontano a circa il 40-50% delle persone che ne sono affette, e un buon numero riceve un trattamento sanitario ad impronta prevalentemente istituzionale (33-37).
Nei Paesi a basso reddito (LMIC), invece,la diagnosi di demenza viene fatta solo nel 5-10% dei casi e la maggior parte di essi continua a vivere nel proprio domicilio assistita dai familiari.
La scarsa individuazione delle persone con demenza, nei paesi a basso/medio reddito (LMIC), è stata messa in relazione, con uno scarso livello di educazione, un basso reddito, la prevalenza di occupazione manuale, ma soprattutto, con una tradizione culturale di welfare familiare, con alti livelli di supporto socio-familiare. In sostanza, quello che caratterizza società improntate ad un welfare familiare, come molte regioni italiane del Sud, sono le aspettative di assistenza e la diffidenza nei confronti dell’assistenza socio-sanitaria formale. Le donne, in particolare, sono tenute a prendersi cura di parenti anziani e nipoti. Inoltre, le aspettative culturali di care-giving prevalgono sulla gravità delle esigenze di assistenza del ricevente (ad esempio, stato di allettamento) e sulle implicazioni personali della situazione di care-giving (ad esempio, perdita di reddito a causa di assistenza. Da questa prospettiva, i care-givers, sia quelli formali che quelli informali, danno per scontato di doversi conformare alla norma culturale di fornire assistenza "a tutti i costi" piuttosto che rivolgersi a servizi di assistenza formali.
La diagnosi, nelle persone riconosciute malate, viene fatta, in media,da 2 a 5 anni dopo l’inizio della malattia, nella fase moderata o severa della malattia, quando le disabilità nelle prestazioni della vita quotidiana e i disturbi comportamentali si fanno frequenti e clamorosi. Diversi studi stimano che la maggior parte delle persone con demenza, che vivono in comunità, ha una età media di 80 anni, ed è in condizioni socio-economiche di disagio. Inoltre, delle persone che vivono in comunità circa un 40% sono sole, e non possono contare sull’aiuto di familiari.
Le persone con demenza vivono in media da 8 a 10 anni dopo la diagnosi. Tuttavia, questo periodo può variare, per durata e qualità di vita, in modo significativo da individuo a individuo: alcune persone vivono per più di vent'anni, altre vivono solo pochi anni.
L'aspettativa di vita di una persona affetta da demenza dipende da molti fattori: il tipo di demenza, le comorbidità, la gravità della demenza al momento della diagnosi, l'età, il sesso, la salute e il benessere generale dell'individuo. Questo periodo, se manca un ascolto e un supporto partecipato e consapevole, e, in assenza di servizi socio-sanitari efficienti, può trascorrere come una lunga, penosa e insopportabile sofferenza. Le continue e ingravescenti perdite, che caratterizzano l’evoluzione della demenza, dalla perdita di senso di realtà e di familiarità di persone e cose, alla perdita di abilità fisiche elementari come aver cura del proprio corpo, alla perdita di controllo dei propri bisogni, suscitano sentimenti di rabbia, tristezza, disperazione, fino a stati di stress e depressione sia nella persona con demenza che nei suoi cari. Il vissuto che accompagna questo lungo periodo è quello di un lutto persistente, ambiguo e insensato, deprivato di qualsiasi forma di elaborazione e condivisione.
A differenza di altre condizioni di salute comuni e invalidanti come il cancro o le malattie cardiovascolari, non esiste un algoritmo clinico ampiamente adottato per il riconoscimento precoce e la valutazione dei pazienti con sospetta demenza, né esiste e funziona un consenso sociale e una partecipazione solidale alle vicende traumatiche delle persone con demenza.
È accaduto, quindi, che le persone con demenza e le loro famiglie, siano state lasciate sole nella loro sofferenza per anni, e abbiano trovato,e trovino ancora oggi,solo nella fase più severa dei disturbi, una parziale e carente risposta medica e sociale. Solo al momento di drammatiche emergenze come imprevedibili stati di agitazione, accessi deliranti persecutori, fughe da casa o cadute accidentali, stati di denutrizione e allettamento, si attiva un intervento socio-sanitario d’urgenza. Altre volte, la decisione di procedere ad un ricovero in un ambiente assistito avviene per effetto di un carico di lavoro/cura diventato troppo stressante e patogeno (depressione) e non più sostenibile.
Questo quadro sconfortante, pur ampiamente diffuso, è in lenta e graduale evoluzione, con poche lodevoli eccezioni in varie parti del mondo (Olanda, Canada, UK, Australia) e in alcune regioni del ns paese (Regione Emilia e Romagna, Veneto). Purtroppo il divario Nord/Sud del nostro paese, nel campo delle politiche socio-sanitarie per le demenze, è particolarmente grave, e meriterebbe un forte impegno pubblico e privato soprattutto in riferimento al crescente invecchiamento della popolazione, all’emorragia di giovani verso il Nord e al crescente livello di povertà di queste regioni.

* psicogeriatra, già direttore del Dipartimento di Salute mentale Roma H
Presidente Associazione “Alzheimer, Salute, Architettura”



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