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Suicidio farmacologico assistito o diritto a morire rapidamente e con dignità?

di Paola Ferrari

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24 Esclusivo per Sanità24

Suicidio farmacologico assistito o terapia palliativa terminale? Esiste il diritto alla morte che libera dal dolore ed esiste il diritto a che lo Stato liberi dal dolore? Quando la persona può decidere di uscire dalla propria vita contando sul supporto di un medico che lo liberi dal dolore della morte? È il tema che in questi giorni divide l’Italia e che ha visto l’associazione Luca Coscioni in prima linea in una lunga battaglia giudiziaria a sostegno di un paziente tetraplegico che aveva l’espresso la volontà di interrompere le cure e di giungere ad una morte rapida attraverso un’accelerazione farmacologica.
Il Comitato Tecnico del farmaco dell’azienda sanitaria delle Marche, con relazione del 4 febbraio, ha affermato che il farmaco «Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi», proposto dal cittadino, è «idoneo a garantire la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile rispetto all'alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa e ad ogni altra soluzione in concreto praticabile virgola compresa la somministrazione di un farmaco».
Si tratta di suicidio oppure di sedazione terminale profonda con un farmaco solo più efficace?
Se le questioni di principio possono essere distanti quando il confronto si fa con il dolore di una vita lucida non vissuta e dolorosa il crinale si fa molto più stretto e scivoloso.
I fatti
Mario, nome di fantasia, ha 43 anni e da dieci anni vive immobile e paralizzato a causa di un incidente stradale che gli ha procurato una frattura della colonna vertebrale.
È mantenuto in vita grazie a macchinari e trattamenti di sostegno vitale.
Soffre di un’ assoluta compromissione di tutte le funzioni corporali di base al punto da richiedere sostegno manuale anche per gli elementari bisogni di evacuazione.
Sostegni che se non messi in atto porterebbero comunque alla morte ma passando per atroci dolori.
Vuole esercitare il suo diritto a interrompere le cure ma chiede di morire rapidamente con una terapia “efficace e non dolorosa”.
La sedazione profonda classica risulterebbe insufficiente.
Il percorso del diritto
Mario afferma il suo diritto sulla scorta della decisione della Corte Costituzionale 242/2019 emessa sulla nota vicenda che vide coinvolto Mario Cappato, noto dirigente dell’associazione, a seguito della morte di DJ Fabo.
In quella circostanza, la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla parziale incostituzionalità dell’art. 580 del codice penale (istigazione a suicidio), affermò che la declaratoria di incostituzionalità attiene non a qualsiasi istigazione al suicidio ma in modo specifico e esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero, alternativamente, lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza.
L’art. 580 cod. pen. fu dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non escludeva la punibilità di chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
L’accertamento è necessario per evitare che il sanitario che lo sostiene in questo progetto possa essere accusato deontologicamente e penalmente.
Dopo avere chiesto all’Asl di Ancona di essere liberato dalla vita diventata secondo lui una tortura intollerabile e avendone ottenuto un rifiuto, Mario si rivolse in via d’urgenza al Tribunale di Ancona affinché fosse accertato il suo diritto alla somministrazione del farmaco “Tiopendone sodico” nella quantità di 20 grammi un barbiturico utilizzato come agente anestetico per procedure chirurgiche.
Il Tribunale di Ancona, con ordinanza del 26/03/2021, respinse la richiesta per quanto riguardava l’aiuto della struttura sanitaria alla prescrizione e somministrazione del farmaco ma accolse la richiesta di valutazione delle condizioni cliniche e del percorso terapeutico suggerito dal cittadino.
La Corte Costituzionale, secondo il tribunale marchigiano, affermava il diritto del singolo a porre fine alla propria vita ma non anche il diritto di ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di porre fine alla propria esistenza.
Contro questa decisione fu proposto reclamo al collegio che valorizzò un altro punto della controversia e cambiò la decisione del giudice monocratico.
Si tratta di stabilire, afferma il giudice di Ancona, fino a che punto può essere valorizzato e garantito il diritto all’autodeterminazione del malato nelle scelte e nelle terapie, nel caso in cui il quadro patologico sia ormai irreversibile.
Occorre comprendere, prosegue, in assenza di una disciplina puntuale, se tra le libertà del paziente desumibili dal combinato disposto degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma della Carta Fondamentale, vada annoverato il diritto alla liberazione delle sofferenze nel più breve tempo possibile oppure il diritto a morire rapidamente e con dignità con conseguente diritto “a ricevere un aiuto nel morire”.
Il Tribunale marchigiano, in sintesi, affermò che il paziente aveva il diritto non di pretendere l’assistenza attiva ma di pretendere dall’azienda sanitaria regionale della Marche l’accertamento delle sue condizioni di salute al fine di verificare se vi fossero i presupposti richiamati nella sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, ai fini della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un soggetto terzo e la verifica sull'effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco ( Tiopendone sodico la quantità di 20 grammi) prescelti dall'istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile.
Il fragile equilibrio tra eutanasia e palliazione
C’è da chiedersi se quello che chiede Mario sia effettivamente un suicidio oppure più semplicemente l’accompagnamento alla morte attraverso una tecnica, seppure potente, di sedazione palliativa con un farmaco diverso e più rapido e potente di quelli normalmente utilizzati a tale scopo.
Il paziente è in una condizione di accanimento terapeutico.
Senza macchine e liberazione fisiologica manuale non può vivere.
Interrompere le cure porterebbe comunque e inevitabilmente alla morte naturale, come in tutte le malattie terminali ma la morte giungerebbe lucidamente e tra atroci dolori.
La differenza è solo nel farmaco utilizzato per sedare il paziente ed accompagnarlo nella sua naturale morte.
Ad avviso di chi scrive, la richiesta di Mario non è di essere ucciso, ma solo di essere sedato rapidamente per essere staccato dalle procedure di assistenza e andare via senza dolore.
Un distinguo etico di non poco conto che si fonda sul punto di partenza del malato destinato o meno ad una morte comunque certa.
Un malato che avrebbe diritto comunque alla sedazione profonda. Il farmaco scelto si distingue solo per la sua rapidità d’azione.
Nella “Samaritanus bonus” della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita del 22/09/2020 si afferma che “sotto il profilo clinico, i fattori che maggiormente determinano la domanda di eutanasia e suicidio assistito sono il dolore non gestito e la mancanza di speranza, umana e teologale, indotta anche da una assistenza umana, psicologica e spirituale sovente inadeguata da parte di chi si prende cura del malato”. Il Magistero della Chiesa ricorda che “quando si avvicina il termine dell’esistenza terrena, la dignità della persona umana si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che le è dovuta. Tutelare la dignità del morire significa escludere sia l’anticipazione della morte sia il dilazionarla con il cosiddetto “accanimento terapeutico”.
Prosegue, “nel caso specifico dell’accanimento terapeutico, va ribadito che la rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati «non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» o la scelta ponderata di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare. La rinuncia a tali trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, può anche voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, escludendo però ogni atto di natura eutanasica o suicidaria”. Principio fondamentale e ineludibile dell’accompagnamento del malato in condizioni critiche e/o terminali è la continuità dell’assistenza alle sue funzioni fisiologiche essenziali.
In particolare, una cura di base dovuta a ogni uomo, afferma il documento, “è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo, nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. Quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa. In questo modo non si anticipa illecitamente la morte per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali, ma si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale. In caso contrario, la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce. Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica in senso proprio, in quanto non contrastano le cause di un processo patologico in atto nel corpo del paziente, ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile. L’obbligatorietà di questa cura del malato attraverso un’appropriata idratazione e nutrizione può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale] a condizione che essa non risulti dannosa per il malato o provochi sofferenze inaccettabili per il paziente”.
Un profondo senso religioso può permettere al paziente di vivere il dolore come un’offerta speciale a Dio, nell’ottica della Redenzione, tuttavia, prosegue il documento “la Chiesa afferma la liceità della sedazione come parte della cura che si offre al paziente, affinché la fine della vita sopraggiunga nella massima pace possibile e nelle migliori condizioni interiori. Questo è vero anche nel caso di trattamenti che avvicinano il momento della morte (sedazione palliativa profonda in fase terminale), sempre, nella misura del possibile, con il consenso informato del paziente. Dal punto di vista pastorale, è bene curare la preparazione spirituale del malato perché arrivi coscientemente alla morte come all’incontro con Dio. L’uso degli analgesici è, dunque, parte della cura del paziente, ma qualsiasi somministrazione che causi direttamente e intenzionalmente la morte è una pratica eutanasica ed è inaccettabile. La sedazione deve dunque escludere, come suo scopo diretto, l’intenzione di uccidere, anche se risulta con essa possibile un condizionamento sulla morte comunque inevitabile”.
I termini, in questo contesto sono importanti.
Quando si parla di “suicidio” si parla della scelta deliberata di una persona di mettere fine alla propria vita a prescindere dalla malattia quando, al contrario, si parla di “eutanasia” si parla del diritto di un paziente gravemente malato di morire naturalmente ma di alleviare il dolore attraverso l'impiego di mezzi per alleviare la sofferenza (per esempio: l'uso di morfina) causa, come effetto secondario, la diminuzione dei tempi di vita.
Le modalità di accertamento di questo confine non sono semplici, coinvolgono valutazioni etiche che non possono e non devono essere ignorate come non può essere ignorato il diritto della persona gravemente compromessa ad andare via senza dolore.


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