Sentenze

La Consulta depotenzia il decreto appropriatezza e segna la strada al finanziamento del Ssn

di Luca Antonini (Ordinario di Diritto costituzionale università di Padova)

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24 Esclusivo per Sanità24

La sentenza n. 169 del 2017 ha deciso il ricorso, promosso in particolare dalla Regione Veneto contro gli artt. 9-bis; 9-ter, commi 1, lettere a) e b), 2, 3, 4, 5, 8 e 9; 9-quater, commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7; e 9-septies, commi 1 e 2, del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125.

Si tratta di una pronuncia da leggere con molta attenzione, perché è una sentenza interpretativa di rigetto, con la quale la Corte costituzionale, se da un lato dichiara infondate le censure avanzate dal ricorso della regione Veneto, dall'altro, precisa che lo fa “ai sensi di cui in motivazione”, dove enuclea le precise modalità interpretative che sole salvano la costituzionalità delle norme impugnate. In altre parole, le norme impugnate non sono incostituzionali solo se interpretate secondo la chiave ermeneutica fatta proprio dalla Corte.

Da questo punto di vista, la Corte costituzionale con questa sentenza afferma i seguenti principi e obiettivi che risultano di indubbia rilevanza per un corretto sviluppo del Ssn.

1) La sentenza riduce gli obblighi del decreto del Ministero della Salute sulle prescrizioni mediche appropriate - che doveva rispondere nell'intenzione del Ministero ai costi della cd. “medicina difensiva” -, a un semplice “invito”, praticamente quasi azzerandone la portata vincolante per il medico, del quale non può essere pregiudicata la prerogativa di operare secondo “scienza e coscienza”. Altrimenti le relative norme sarebbero certamente contrarie a Costituzione, perché è assolutamente incompatibile un sindacato politico o meramente finanziario sulle prescrizioni mediche.

2) Precisa inoltre che il fatto che sia stata raggiunta una intesa fra la Conferenza delle Regioni e il Governo non determina alcuna acquiescenza da parte delle regioni alla normativa concordata, tale da ritenere inammissibile un successivo ricorso regionale.

3) Afferma quindi che gli obblighi di rinegoziazione di contratti e forniture sanitarie vanno interpretati secondo i principi di buon andamento ed economicità, attraverso adeguata istruttoria, e che in ogni caso la disciplina impugnata supera il vaglio di costituzionalità perché non opera automaticamente e non comporta che le quantità e i prezzi unitari degli acquisti dei beni e dei servizi futuri risultino necessariamente ridotti in modo automatico e lineare. Inoltre, precisa che le stazioni committenti ben possono fare riferimento ad ogni indagine di mercato per definire le decisioni più appropriate nella gestione di queste misure di contenimento della spesa, che non possono certamente pregiudicare la qualità e la continuità dei servizi sanitari.

4) La sentenza rinnova e rafforza poi il pesante monito già rivolto al legislatore statale dalla sentenza n. 154 del 2017 a corredare i tagli sulla sanità con un'appropriata istruttoria finanziaria, evitando la sostanziale estensione dell'ambito temporale di precedenti manovre.

5) Estremamente interessante è infine l'approfondimento che la sentenza compie in relazione al finanziamento dei Lea.

Innanzitutto afferma che il recente Dpcm sui nuovi Lea del 12 gennaio 2017 è gravemente carente e può determinare la violazione del diritto alla salute di cui all'art.32 Cost.
Identifica poi come appropriato solo il modello previsto dall'art. 8, comma 1, della l. n. 42 del 2009 in base al quale a) le spese per i LEA devono essere quantificate attraverso l'“associazione” tra i costi standard e gli stessi livelli stabiliti dal legislatore statale in modo da determinare, su scala nazionale e regionale, i fabbisogni standard costituzionalmente vincolati ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; b) tali fabbisogni devono essere individuati dallo Stato attraverso la “piena collaborazione” con gli enti territoriali; c) l'erogazione delle prestazioni deve essere caratterizzata da efficienza e appropriatezza su tutto il territorio nazionale.

Da questo punto di vista, la sentenza stigmatizza la situazione attuale, che non consente tuttora l'integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previste dall'art. 119 Cost.e rivolge un invito sia allo Stato che alla Regione a distinguere la spesa per i Lea dalle altre componenti della spesa sanitaria.

Di seguito si riportano per esteso i passaggi del Considerato in diritto in cui la Corte costituzionale sviluppa le argomentazioni prima sintetizzate

Sulle Intese
“3.– Occorre preliminarmente esaminare l'eccezione di inammissibilità dei ricorsi sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ritiene che la partecipazione delle Regioni ricorrenti alla Conferenza unificata avrebbe determinato una sorta di acquiescenza alle decisioni maturate in quella sede. Indipendentemente dal fatto in contestazione tra le parti – riguardante rispettivamente le modalità di espressione del dissenso (Regione Veneto) e la partecipazione alla Conferenza che ha portato al perfezionamento dell'intesa (Regione Liguria) – l'eccezione non può essere accolta.

È infatti costante orientamento di questa Corte – fermo restando che l'intesa tra Stato e Regioni si è perfezionata in modo corretto, indipendentemente dalle controverse modalità di partecipazione delle ricorrenti – che «l'istituto dell'acquiescenza non è applicabile nel giudizio di legittimità costituzionale in via principale (ex plurimis, sentenze n. 215 e n. 124 del 2015, n. 139 del 2013, n. 71 del 2012 e n. 187 del 2011)» (sentenza n. 231 del 2016).”

Sulle rinegoziazioni obbligate
“7.1.– … È evidente che tali opzioni devono essere valutate non in modo arbitrario ma secondo i principi di buon andamento ed economicità, attraverso adeguata istruttoria (nell'ambito della quale l'eventuale raggiungimento di un nuovo equilibrio può ragionevolmente esigere, sia la ridiscussione di clausole già esistenti, sia l'introduzione di patti ulteriori), svolta in contraddittorio con l'affidatario del contratto, la cui volontà rimane determinante per l'esito definitivo della procedura di rinegoziazione. In pratica, l'alterazione dell'originario sinallagma non viene automaticamente determinata dalla norma, ma esige un esplicito consenso di entrambe le parti. Ove tale consenso non venga raggiunto, soccorrono appunto le ipotesi alternative di cui s'è detto del recesso, della nuova gara e della adesione transitoria a contratti più vantaggiosi. …

L'operatività della rinegoziazione rimane circoscritta alla sola eventualità che i contraenti raggiungano un nuovo accordo attraverso la ridefinizione in concreto delle loro originarie determinazioni. In definitiva, l'offerta di modifica ex art. 9-ter rimane comunque condizionata dalla verifica che il sinallagma del contratto originario non sia dalla stessa inciso fino a pregiudicarne la convenienza per l'amministrazione e la remuneratività per l'esecutore.

Sotto questo profilo, la disciplina impugnata supera il vaglio di costituzionalità poiché disegna un meccanismo idoneo a garantire che le posizioni contrattuali inizialmente concordate tra le parti non siano automaticamente modificate o comunque stravolte dalla sopravvenienza normativa, ma siano circoscritte nel perimetro della normale alea assunta ex contractu, nell'ambito della quale deve essere ricompreso, trattandosi di contratti di durata, anche l'intervento del legislatore.

Dunque la disposizione va interpretata nel senso del conferimento di una facoltà al committente, la quale non comporta che le quantità e i prezzi unitari degli acquisti dei beni e dei servizi futuri risultino necessariamente ridotti in modo automatico e lineare.
La riduzione della spesa va al contrario inquadrata in un piano globale di risparmio che obbliga l'ente pubblico ad istruire e motivare la scelta più conveniente tra le diverse opzioni consentite dal legislatore.

7.2.– …. Oltre ai riferimenti parametrici previsti da tali disposizioni le stazioni committenti ben possono fare riferimento ad ogni indagine di mercato per definire le decisioni più appropriate nella gestione di queste misure di contenimento della spesa, che non possono certamente pregiudicare la qualità e la continuità dei servizi sanitari. Il riferimento ad elementi parametrici è non solo consentito alle stazioni committenti, ma diventa corredo istruttorio indefettibile per valutare la congruità delle decisioni applicative o alternative della riduzione dei contratti.

7.3.– Le esposte argomentazioni consentono anche di dichiarare non fondata l'ulteriore censura proposta dalla ricorrente, secondo cui quella impugnata sarebbe comunque una disciplina di dettaglio, incompatibile con la potestà legislativa attribuita allo Stato dall'art. 117, terzo comma, Cost.

Infatti, la disposizione in esame, correttamente interpretata, pone un obiettivo di carattere macroeconomico alla spesa regionale temporalmente limitato, lasciando sufficienti alternative alla Regione per realizzarlo.
Sul decreto appropriatezza.

“8.– … Deve essere innanzitutto precisato che il decreto di cui al citato comma 1, il quale prevede le condizioni di erogabilità e le indicazioni di appropriatezza prescrittiva, ed il successivo comma 2, che pone a carico dell'assistito le prestazioni al di fuori delle condizioni di erogabilità, non vietano certamente al medico le prescrizioni ritenute necessarie nel caso concreto e non pregiudicano quindi la sua prerogativa di operare secondo “scienza e coscienza”. ….

Quanto alle altre disposizioni impugnate, relative all'informazione, al controllo, alle sanzioni e alle responsabilità connesse all'erogazione delle prestazioni, ove fossero assunti nel significato attribuito dalla Regione ricorrente, esse sarebbero certamente contrarie ai parametri costituzionali evocati; tuttavia, tale significato non è l'unico attribuibile al testo normativo, del quale è possibile un'interpretazione conforme al dettato costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 279 del 2016).

Peraltro, sullo specifico argomento dei limiti alla discrezionalità legislativa in tema di esercizio dell'arte medica, la giurisprudenza di questa Corte appare assolutamente congruente con l'attribuzione di un diverso significato alle disposizioni impugnate, come appresso specificato.

Così è stato più volte affermato il “carattere personalistico” delle cure sanitarie, sicché la previsione legislativa non può precludere al medico la possibilità di valutare, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, il singolo caso sottoposto alle sue cure, individuando di volta in volta la terapia ritenuta più idonea ad assicurare la tutela della salute del paziente (in senso conforme, tra le altre, sentenza n. 151 del 2009). Alla luce di tale indefettibile principio, l'“appropriatezza prescrittiva” prevista dall'art. 9-quater, comma 1, del d.l. n. 78 del 2015 ed i parametri contenuti nel decreto ministeriale devono essere dunque intesi come un invito al medico prescrittore di rendere trasparente, ragionevole e informata la consentita facoltà di discostarsi dalle indicazioni del decreto ministeriale.

In tale accezione ermeneutica devono essere intese anche le disposizioni in tema di controlli di conformità alle indicazioni del decreto ministeriale: esse non possono assolutamente conculcare il libero esercizio della professione medica, ma costituiscono un semplice invito a motivare scostamenti rilevanti dai protocolli. È invece assolutamente incompatibile un sindacato politico o meramente finanziario sulle prescrizioni, poiché la discrezionalità legislativa trova il suo limite «[nel]le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l'arte medica: sicché, in materia di pratica terapeutica, la regola di fondo deve essere la autonomia e la responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali (sentenze n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002)» (sentenza n. 151 del 2009).

A tali evidenze scientifiche e ai richiamati principi giurisprudenziali deve pertanto attenersi la redazione del decreto ministeriale, il quale deve tenere conto – in particolare – della dinamica evolutiva terapeutica e della specificità del paziente, inteso come soggetto titolare di un diritto alla appropriata attribuzione dei presidi diagnostici e terapeutici. Ciò comporta che la vigilanza e l'eventuale comminazione di sanzioni al medico non possano essere ispirate ad una mera ratio di deterrenza verso il proliferare della spesa sanitaria, ma siano, al contrario, dirette alla tutela del paziente e del servizio, così da intercettare eventuali gravi scostamenti dalla fisiologia della pratica medica, diretti a soddisfare unicamente gli interessi economici dei soggetti coinvolti nell'industria farmaceutica e nella produzione dei servizi sanitari o comunque altri interessi, ulteriori e confliggenti con l'efficace ed efficiente gestione della sanità.

Infatti, è costante orientamento di questa Corte che «scelte legislative dirette a limitare o vietare il ricorso a determinate terapie – la cui adozione ricade in linea di principio nell'ambito dell'autonomia e della responsabilità dei medici, tenuti ad operare col consenso informato del paziente e basandosi sullo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche a disposizione – non sono ammissibili ove nascano da pure valutazioni di discrezionalità politica, e non prevedano “l'elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati”, né costituiscano “il risultato di una siffatta verifica”. Si può ora aggiungere che stabilire il confine fra terapie ammesse e terapie non ammesse, sulla base delle acquisizioni scientifiche e sperimentali, è determinazione che investe direttamente e necessariamente i principi fondamentali della materia, collocandosi “all'incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica” (sentenza n. 282 del 2002)» (sentenza n. 338 del 2003).

Alla luce di quanto precede, deve dunque essere esclusa qualsiasi lesione dell'autonomia regionale in relazione all'organizzazione del servizio sanitario ed al suo buon andamento, poiché le norme impugnate, nella predetta accezione ermeneutica, attengono proprio alla cura del buon andamento della sanità complessivamente inteso.

Coerente con la prospettiva ermeneutica costituzionalmente orientata è la formulazione dei commi 5 e 6 dell'art. 9-quater.

La richiesta di chiarimenti al medico prescrittore e l'eventuale riduzione del trattamento economico accessorio deve essere intesa come rigorosamente riferita, non a mere elaborazioni statistiche sull'andamento generale delle prescrizioni, ma a fattispecie di grave scostamento dalle evidenze scientifiche in materia. Si tratta, a ben vedere, di una norma applicativa del principio di vigilanza sull'operato del personale sanitario che, più che innovativa, è sostanzialmente specificativa delle modalità di contrasto nei confronti di alcune prassi gravemente patologiche.

Peraltro, considerato lo stretto legame logico e funzionale tra l'abuso prescrittivo e gli interessi di tutela del paziente e del buon andamento sanitario, nonché la complessa dialettica scientifica che può caratterizzare alcune ipotesi di sospetto abuso, il sindacato in esame implica non solo che all'interessato sia assicurato il diritto a controdedurre rispetto all'addebito contestato, ma anche che egli possa interagire nelle fasi prodromiche all'assunzione della decisione formale, in modo da assicurare in tale sede la piena cognizione dei fatti e degli interessi in gioco. E ciò da solo spiega che quello istituito dalla norma non è un controllo burocratico bensì un sindacato che deve essere gestito – come esattamente osservato dall'Avvocatura generale dello Stato – secondo le regole deontologiche dell'esercizio della professione medica.

Di quanto argomentato è naturale conseguenza la responsabilità del direttore generale per omessa vigilanza ai sensi dell'art. 9-quater, comma 6.

Dunque l'intero contesto normativo dell'art. 9-quater impugnato dalla Regione Veneto trova nell'esposta interpretazione sistematica la ragione della propria conformità ai parametri costituzionali evocati.

Sul monito al legislatore statale
“9.1. … Se la temporaneità della soluzione normativa scelta dal legislatore è coerente con l'esigenza di assicurare nel breve periodo il concorso delle Regioni alla risoluzione di una grave situazione di emergenza economica del Paese, evitando che detta esigenza diventi “tiranna” attraverso una stabilizzazione apodittica dei sacrifici imposti all'ente territoriale e alla collettività amministrata, nondimeno deve essere rinnovato al legislatore l'invito a corredare le iniziative legislative incidenti sull'erogazione delle prestazioni sociali di rango primario con un'appropriata istruttoria finanziaria. Ciò soprattutto al fine di definire in modo appropriato, anche tenendo conto delle scansioni temporali dei cicli di bilancio e più in generale della situazione economica del Paese, il quadro delle relazioni finanziarie tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali, evitando la sostanziale estensione dell'ambito temporale di precedenti manovre che potrebbe sottrarre al confronto parlamentare la valutazione degli effetti complessivi e sistemici di queste ultime in un periodo più lungo (sentenza n. 154 del 2017)”.

Sui Lea
9.3.1 – I LEA, in quanto appartenenti alla più ampia categoria dei LEP, devono essere determinati dal legislatore statale e garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. L'art. 8, comma 1, della legge n. 42 del 2009, recante «Principi e criteri direttivi sulle modalità di esercizio delle competenze legislative e sui mezzi di finanziamento», dispone in proposito che «[a]l fine di adeguare le regole di finanziamento alla diversa natura delle funzioni spettanti alle regioni, nonché al principio di autonomia di entrata e di spesa fissato dall'articolo 119 della Costituzione, i decreti legislativi di cui all'articolo 2 [nel caso di specie il decreto n. 68 del 2011 e le successive modifiche e integrazioni] sono adottati secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi: a) classificazione delle [….] spese relative a materie di competenza esclusiva statale, in relazione alle quali le regioni esercitano competenze amministrative; tali spese sono: 1) spese riconducibili al vincolo dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione; 2) spese non riconducibili al vincolo di cui al numero 1); […] b) definizione delle modalità per cui le spese riconducibili alla lettera a), numero 1), sono determinate nel rispetto dei costi standard associati ai livelli essenziali delle prestazioni fissati dalla legge statale in piena collaborazione con le regioni e gli enti locali, da erogare in condizioni di efficienza e di appropriatezza su tutto il territorio nazionale; […]».

Da tale norma si evince, tra l'altro, che: a) le spese per i LEA devono essere quantificate attraverso l'“associazione” tra i costi standard e gli stessi livelli stabiliti dal legislatore statale in modo da determinare, su scala nazionale e regionale, i fabbisogni standard costituzionalmente vincolati ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; b) tali fabbisogni devono essere individuati dallo Stato attraverso la “piena collaborazione” con gli enti territoriali; c) l'erogazione delle prestazioni deve essere caratterizzata da efficienza ed appropriatezza su tutto il territorio nazionale.

In ordine alla puntuale attuazione del regime dei costi e dei fabbisogni standard sanitari che avrebbe dovuto assicurare la precisa delimitazione finanziaria dei LEA rispetto alle altre spese sanitarie, si è verificata – dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 68 del 2011 – una lunga fase di transizione, ancora oggi in atto, attraverso l'applicazione, d'intesa con le Regioni, di criteri convenzionali di riparto. Ciò in attesa di acquisire dati analitici idonei a determinare costi e fabbisogni in modo conforme al richiamato art. 8, comma 1, della legge n. 42 del 2009.

In definitiva, non può sottacersi, nella perdurante inattuazione della legge n. 42 del 2009 già lamentata da questa Corte (sentenza n. 273 del 2013), l'esistenza di una situazione di difficoltà che non consente tuttora l'integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previste dall'art. 119 Cost.

A tale situazione è eziologicamente collegata l'assenza, nella disposizione in esame, di una previsione circa la doverosa separazione del fabbisogno LEA dagli oneri degli altri servizi sanitari. Sotto tale profilo neppure la recente adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 gennaio 2017 (Definizione e aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, di cui all'articolo 1, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502) è di per sè in grado di supplire a detta carenza. La persistenza di tale situazione può causare la violazione degli artt. 32 e 117, secondo comma, lettera m), Cost., nei casi in cui eventuali disposizioni di legge trasferiscano “a cascata”, attraverso i diversi livelli di governo territoriale, gli effetti delle riduzioni finanziarie sulle prestazioni sanitarie costituzionalmente necessarie (in tal senso sentenza n. 275 del 2016).

Nel caso in esame, tuttavia, le ricorrenti non hanno dedotto elementi in grado di provare l'effettiva lesione dei suddetti precetti costituzionali.

Infatti, i molteplici dati finanziari prodotti sono sprovvisti di una coerente proiezione macroeconomica dei costi in termini di fabbisogno regionale, che consenta di dimostrare la ricaduta lesiva della norma impugnata sulla spesa costituzionalmente necessaria. Le ricorrenti si limitano ad enumerare tali elementi senza illustrare la loro interazione sulle risultanze complessive dei rispettivi bilanci e senza enucleare – come previsto dal richiamato art. 8, comma 1, della legge n. 42 del 2009 – nel monte complessivo della spesa regionale sanitaria, il fabbisogno LEA di cui viene lamentata la compressione da parte della disposizione impugnata.

9.3.2.– Se le precedenti considerazioni sono sufficienti ai fini della declaratoria di infondatezza della questione, sono tuttavia utili alcune riflessioni circa la mancata proiezione precedentemente evidenziata, elemento necessario per dimostrare il pregiudizio causato da norme sproporzionatamente riduttive di risorse destinate all'erogazione di prestazioni sociali di carattere primario. Infatti, la trasversalità e la primazia della tutela sanitaria rispetto agli interessi sottesi ai conflitti Stato-Regioni in tema di competenza legislativa, impongono una visione teleologica e sinergica della dialettica finanziaria tra questi soggetti, in quanto coinvolgente l'erogazione di prestazioni riconducibili al vincolo di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.

Se, al fine di assicurare la garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), alla cui categoria, come detto, appartengono i LEA, «spetta al legislatore predisporre gli strumenti idonei alla realizzazione ed attuazione di esso, affinché la sua affermazione non si traduca in una mera previsione programmatica, ma venga riempita di contenuto concreto e reale [di talché] è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio e non l'equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (sentenza n. 275 del 2016), non vi è dubbio che le Regioni stesse debbano collaborare all'individuazione di metodologie parametriche in grado di separare il fabbisogno finanziario destinato a spese incomprimibili da quello afferente ad altri servizi sanitari suscettibili di un giudizio in termini di sostenibilità finanziaria.

Sotto tale profilo, è bene quindi ricordare che la determinazione dei LEA è un obbligo del legislatore statale, ma che la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione che, nel caso di specie, si colora della doverosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività.

Da ciò consegue che la separazione e l'evidenziazione dei costi dei livelli essenziali di assistenza devono essere simmetricamente attuate, oltre che nel bilancio dello Stato, anche nei bilanci regionali ed in quelli delle aziende erogatrici secondo la direttiva contenuta nel citato art. 8, comma 1, della legge n. 42 del 2009.

In definitiva, la dialettica tra Stato e Regioni sul finanziamento dei LEA dovrebbe consistere in un leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale nonché dell'intreccio di competenze statali e regionali in questo delicato ambito materiale.

Ciò al fine di garantire l'effettiva programmabilità e la reale copertura finanziaria dei servizi, la quale – data la natura delle situazioni da tutelare – deve riguardare non solo la quantità ma anche la qualità e la tempistica delle prestazioni costituzionalmente necessarie.

Ne consegue ulteriormente che, ferma restando la discrezionalità politica del legislatore nella determinazione – secondo canoni di ragionevolezza – dei livelli essenziali, una volta che questi siano stati correttamente individuati, non è possibile limitarne concretamente l'erogazione attraverso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica. In tale ipotesi verrebbero in essere situazioni prive di tutela in tutti i casi di mancata erogazione di prestazioni indefettibili in quanto l'effettività del diritto ad ottenerle «non può che derivare dalla certezza delle disponibilità finanziarie per il soddisfacimento del medesimo diritto» (sentenza n. 275 del 2016).

Deve essere infine sottolineato che – in attesa di una piena definizione dei fabbisogni LEA – misure più calibrate e più stabili di quelle fino ad oggi assunte sono utili per la riqualificazione di un servizio fondamentale per la collettività come quello sanitario. Questa Corte ha affermato che la programmazione e la proporzionalità tra risorse assegnate e funzioni esercitate sono intrinseche componenti del «principio del buon andamento [il quale] – ancor più alla luce della modifica intervenuta con l'introduzione del nuovo primo comma dell'art. 97 Cost. ad opera della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale) – è strettamente correlato alla coerenza della legge finanziaria», per cui «organizzare e qualificare la gestione dei servizi a rilevanza sociale da rendere alle popolazioni interessate […] in modo funzionale e proporzionato alla realizzazione degli obiettivi previsti dalla legislazione vigente diventa fondamentale canone e presupposto del buon andamento dell'amministrazione, cui lo stesso legislatore si deve attenere puntualmente» (sentenza n. 10 del 2016)”.


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