Sentenze

Colpa medica, la Cassazione esclude la responsabilità del sanitario se la malattia è di “estrema gravità”

di Pietro Verna

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24 Esclusivo per Sanità24

La colpa medica non sussiste nel caso di una malattia di estrema gravità. Lo ho stabilito la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4587/2022, che ha confermato la pronuncia con la quale la Corte di appello di Genova aveva respinto la richiesta di risarcimento formulata dal coniuge di una paziente deceduta a causa di una infezione insorta durante il trattamento di fibrosi polmonare eseguito nell’ Ospedale San Martino di Genova, struttura presso il quale la paziente era stata ricoverata, dopo che la patologia le era stata causalmente diagnosticata da un altro ospedale in occasione di un sinistro stradale.
La vicenda processuale
Il coniuge della paziente aveva citato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Genova, l’Ospedale San Martino e due sanitari, il primario di pneumologia del nosocomio e il medico curante della paziente, al fine di sentirli dichiarare responsabili della morte della donna per «tardiva individuazione della fibrosi polmonare» e per «inadeguato trattamento della malattia», eseguito senza il preventivo consenso della paziente, con conseguente condanna al risarcimento dei danni. A suo dire, il medico curante sarebbe stato responsabile dell’evento per « aver omesso di diagnosticare tempestivamente la malattia» e per aver «avallato» la terapia seguita dal primario dell’Ospedale San Martino, mentre quest’ultimo avrebbe «inopinatamente» disatteso le indicazioni terapeutiche dei precedenti sanitari che avevano diagnosticato la malattia » e violato l’obbligo del consenso informato. Richieste che erano state accolte solo in parte: il Tribunale aveva escluso la colpa medica e riconosciuto i danni da mancato consenso informato, liquidati in via equitativa nella misura di euro 3,333 oltre agli interessi legali.
Decisione che la Corte di appello aveva condiviso. Ad avviso del Collegio, la quantificazione del danno per violazione del diritto al consenso informato era stata equilibrata («la paziente, quand’anche regolarmente informata per iscritto che la terapia immunodepressiva avrebbe potuto provocarle delle infezioni, non si sarebbe negata a tale terapia, avuto riguardo alla estrema gravità della sua malattia ed all’assenza, almeno all’epoca, di altre concrete ed efficaci soluzioni terapeutiche»), fermo restando la conferma dell’assenza di colpa dei sanitari, dal momento che dall’istruttoria dibattimentale e dall’esame dei testi era emerso che:
- il medico curante aveva visitato la paziente un « anno prima» che la fibrosi polmonare fosse diagnosticata;
- la paziente era affetta da una « grave e veloce malattia polmonare con prognosi infausta»;
- la terapia immunosoppressiva somministrata dall’ Ospedale San Martino «era quella prevista, all’epoca, dallo stato dell'arte»;
- l'infezione cagionata dalla terapia rientrava tra «gli effetti collaterali inevitabili di ogni cura a cui si ricorre nei casi estremi»;
- il medico curante «rispetto ai medici specialisti di un determinato reparto ospedaliero, non aveva […] né le competenze specialistiche, per sindacare l’operato terapeutico dei sanitari ospedalieri, né il potere di condizionar[ne] le condotte, né alcuna compartecipazione alle scelte di essi, restando, sostanzialmente al pari di un congiunto del ricoverato un mero visitatore».
La sentenza della Cassazione
Dinanzi alla Cassazione il marito della paziente aveva chiesto l’annullamento la sentenza della Corte di appello per difetto di motivazione, in relazione alla responsabilità dei medici per omessa diagnosi e corresponsabilità per le scelte terapeutiche, nonché in ordine ai criteri relativi alla quantificazione del danno. Richiesta che il Supremo Collegio ha ritenuto inammissibile ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 5 del codice di procedura civile, che esclude la possibilità di ricorrere in Cassazione quando la pronuncia del giudice d’appello conferma le medesime ragioni di fatto poste a base della decisione formulata dal giudice di primo grado.


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