Aziende e regioni

Che lo straordinario non diventi ordinario: commissari ad acta da maneggiare con cura e parsimonia se si hanno a cuore democrazia ed efficienza

di Ettore Jorio

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24 Esclusivo per Sanità24

Un Paese che si rispetti ma soprattutto che abbia il massimo della considerazione della propria Nazione e di quella europea deve divenire strutturalmente normale. Questo per essere rispettoso dei diritti fondamentali della persona. Deve pertanto bandire ogni loro impedimento erogativo e, dunque, ogni ricorso al commissariamento, a garanzia dell’esigibilità dei diritti civili e sociali agli individui. Ha l’obbligo di farlo normalmente e sistematicamente, attraverso le istituzioni democratiche previste dalla propria Costituzione. Conseguentemente, deve ricorrere con grande parsimonia e a tempo (molto) determinato a scelte sostitutive dell’ordinario agire delle istituzioni che hanno a capo decisori democraticamente eletti. Guai a un governo nazionale che li sostituisca d’imperio e frequentemente, inciampando spesso in soluzioni che sono peggio del male, di durata finanche ultra decennale.
Necessita il rimedio del ritorno alla normalità, ma molto responsabilizzata...
Tanti sono infatti i commissari che hanno fatto più guai che bene, soprattutto alla democrazia praticata e vissuta, a cominciare – per non andare troppo lontano – dagli approvvigionamenti di materiale per la difesa dal Covid, dal recupero delle aree inquinate, dalla tutela dei temi ambientali e di salvaguardia idrogeologica, per arrivare ai comuni sciolti e relativo commissariamento, ove si è registrata da sempre l’interruzione di ogni genere di programmazione tale da arretrare la qualità di vita locale in termini di vivibilità quotidiana.
Quello che ha fatto e continua a fare danni infiniti, perché divenuto strutturale con il suo impiego addirittura di cinque Regioni ordinarie su quindici, è il commissariamento ad acta delle sanità, ex art. 120, comma 2, della Costituzione. Ciò perché produce risultati dispendiosi, inutili e dannosi nonché generativi di un sensibile accorciamento del processo della decisione democratica, finanche produttivo di comportamenti non propriamente secundum legem, tenuti da tutta la filiera burocratica in essi impegnata.
…altrimenti si rischia il peggio portato a sistema
Un assunto che è venuto maggiormente alla ribalta con la sentenza n. 148/2023 della Corte dei conti, resa dalla Sezione di controllo per il Lazio in sede di parificazione del rendiconto consolidato regionale dell’esercizio 2022. Ne sono venute fuori, a cura dell’attento Giudice contabile, “di cotte e di crude” riconducibili al trascorso periodo commissariale (si veda qui articolo del 20 febbraio scorso).
Ma è soprattutto emersa l’esistenza all’epoca di una rete di soggetti giuridici pubblici muniti di autonomia imprenditoriale (le Asl) avvezzi a commettere ripetuti “errori” di appostazione nei loro bilanci per un valore di residui attivi di circa un miliardo di euro complessivo relativamente al periodo 2017 e successivi, oggetto di commissariamento ad acta. Il tutto derivante dalla errata erogazione di somme, prevalentemente per extra-budget, in favore di privati erogatori “aggiustata” con appostazioni di note di credito da ricevere di pari importo complessivo. Uno stratagemma utile a consentire, con il passare del tempo, il loro dissolvimento mediante decurtazione dal patrimonio netto (alias, da un abusato fondo di dotazione ereditato dal passaggio alla contabilità ordinaria di cui al vigente d.lgs. 118/2011, giustificativo dell’esordio e, in quanto tale, destinato a rimanere tale nel quantum e non a registrare saliscendi). Un ricorso, questo, a un metodo artificioso invece di ricorrere all’emissione di note di debito corrispondenti da portare all’incasso nel corso dello stesso anno di rilevazione, anche attraverso la decurtazione dei crediti vantati per una medesima causa (retribuzioni per prestazioni assicurate in regime di accreditamento/contratto) dai medesimi rilevati indebiti percettori.
In sede di parificazione, questa volta elaborata dai Giudici contabili con tutti i crismi dell’attenzione e della meticolosità tecnica, è andata male a chi si è reso responsabile delle registrazioni in contabilità e della redazione dei relativi bilanci (per questo indagato dalla Procura della Repubblica per falso in bilancio), agli eventuali ispiratori della metodologia, agli addetti ai controlli interni (collegio sindacale, dirigenti preposti all’internal audit, advisoring, eventuali società di revisione e organo di vigilanza ex d.lgs. 231/2001) e al Tavolo Mef che è stato, al riguardo, a dir poco distratto, considerata la reiterazione della “svista” nelle diverse annualità. Ciò in quanto a quest’ultimo si fa risalire il de-commissariamento per merito della Regione Lazio, dimostrativo della conseguita regolarità nei bilanci, tale da ritornare alla gestione normale, seppure ancora sottoposta a piano di rientro.
Un doveroso “restauro” dei bilanci da perfezionarsi tra obblighi e divieti
Questo brutto episodio di dir poco di contabilità fantasiosa imporrà agli attuali manager delle Asl coinvolte e alla Regione Lazio un oneroso impegno risanatore del bilancio. Pertanto, ci sarà un gran da farsi nella formulazione del bilancio di esercizio 2023 (appena scaduto ma rettificabile), atteso il categorico divieto di riapertura dei bilanci 2022 a suo tempo segnatamente compromessi, optando per la emissione di note debito corrispondenti alle anzidette note di credito da ricevere (e non ricevute) e ovviamente incassandole ovvero compensandole con pari crediti verso i medesimi erogatori privati debitori al 31 dicembre 2022. Ciò al fine di evitare di considerarle erroneamente non più esigibili e, in quanto tali, di portarle nel conto economico 2023 come insussistenze dell’attivo (sopravvenienze passive), generando peraltro perdite di esercizio indicibili.
A ben vedersi, un gran da farsi del quale risultato dovrà prendere atto la Regione Lazio nel coevo bilancio consolidato.
Tutto questo ambaradan, riferito a ciò cui sono tenuti oggi le Asl e la Regione laziali per sistemare quanto accaduto ripetutamente negli anni di commissariamento ad acta, porta al convincimento della chiara obsolescenza dell’istituto commissariale applicato alle sanità regionali (e non solo), oramai rimaste due: della Calabria e del Molise.
Il commissariamento indebolisce l’istituzione e incrementa le occasioni di abuso
Una obsolescenza da riconoscersi non solo per quanto sottolineato e quanto di grave accaduto in terra laziale (ma presumibilmente anche altrove!) bensì da sottolineare anche in relazione al progressivo formarsi della normativa. Il riferimento va alla salute integrata, oramai riconosciuta dal 12 gennaio 2017 con i Liveas “disciolti” perché inseriti nei Lea, che per la loro esigibilità richiedono politiche sociali regionali da regolare con la legislazione esclusiva di ogni Regione, cui la revisione costituzionale del 2001 ne ha assegnato la competenza residuale. Di conseguenza, un commissario ad acta verrebbe a essere - seppure impersonificato dal Presidente della Regione medesima – contestualmente da un lato un organo monocratico regolamentativo e gestorio della salute e dall’altro spettatore di quanto il Consiglio regionale dovrebbe (si usa il condizionale perché nessuna Regione ha fatto un granché al riguardo) disporre in tema di consistenza ed esigibilità delle prestazioni a contenuto sociale.
Il commissariamento genera incompatibilità sostanziali e deteriora gravemente la vita democratica
L’esistenza di una sanità commissariata viene naturalmente ad assumere una fisionomia dinamica tutta particolare, caratterizzata da una funzionalità segnatamente viziata. Se poi in corso da tanto tempo (in Calabria lo è da circa 17 anni compresi i due di protezione civile), la gestione va ad assumere gli stessi vizi concettuali – sia da parte di chi la “subisce” che di chi la esercita e la eroga - di quel giovane chiuso prima in orfanotrofio e poi in un collegio sino alla maggiore età. Un soggetto che ha del mondo una conoscenza non reale, falsata, specie nelle dinamiche assistenziali.
Una tale situazione ha fatto sì che, nelle Regioni commissariate, la sanità pubblica vivesse per anni senza la benché minima programmazione, anche perché priva per decenni della ineludibile rilevazione dei fabbisogni epidemiologici. Un adempimento, questo, nei confronti del quale solo il ritorno alla normalità istituzionale può dare correttamente corso, attesa la innata collaborazione istituzionale che viene a generarsi tra decisori regionali e quelli locali. E anche, tra i primi e i ceti produttivi interagenti ricorrentemente con il governo della Regione. Il tutto guidato da un responsabile ritorno al Piano sanitario nazionale non più perfezionato a decorrere dal 2006.
Concludendo, la pericolosa obsolescenza rilevata dell’istituto commissariale nella sanità risulta peraltro produttiva di un grave danno istituzionale, quasi di conflittualità tra i due ruoli. Quello di impegnare a tempo pieno il Presidente di Regione/Commissario ad acta, atteso che l’assistenza sociosanitaria è per la collettività quanto di più patito sulla propria pelle, distogliendolo dall’esercizio governatoriale e dalla proposta legislativa che alle Regioni serve perfezionare sempre con maggiore tempestività ed efficacia.


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