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Rispetto dei diritti e sostenibilità sociale

di Carla Collicelli

Lo scarso entusiasmo con cui i cittadini delle regioni meridionali hanno accolto la riforma del Titolo V della Costituzione, ed in particolare il trasferimento della competenza sanitaria alle regioni, è noto. Indagini Censis e Forum Biomedico hanno monitorato con tempestività gli umori dei pazienti e della popolazione su questa importante materia, mostrando sin dall'inizio il contrasto tra una minoranza di favorevoli al sud (25%) ed una maggioranza al nord (60%), e la segnalazione di importanti rischi, espresse ad esempio nell'item "Le regioni non sono pronte a svolgere i nuovi compiti", abbracciato da quasi il 30% dei meridionali (contro il 13% degli abitanti del nord-est). In maniera più trasversale, il supporto di "un meccanismo di redistribuzione finanziaria da parte dello stato" veniva ritenuto necessario (i dati cui ci riferiamo sono di 12 anni fa) da circa il 60% nel Mezzogiorno e nel nord-est, dal 50% nel nord-ovest e dal 45% al centro.
Forse nessuno si sarebbe aspettato, però, che gli esiti del cambiamento fossero così deludenti. I dati medi nazionali sulla spesa sanitaria ed i risultati in termini di salute e speranza di vita collocano l'Italia in posizione più che dignitosa, secondo alcune analisi preminente, nel panorama internazionale, e molte regioni del nord e del centro possono essere considerate all'avanguardia per qualità sanitaria in Europa. Ma la forbice delle disuguaglianze, invece di ridursi, si è allargata. Tutte e tre le categorie classiche di spiegazione delle origini della disuguaglianza nelle società moderne, quella socio-economica (redditi, condizioni sociali), quella istituzionale (servizi, territorio) e quella culturale (scolarizzazione, competenza comunicativa), si sono rafforzate negli ultimi tempi. Quella istituzionale, legata alle scelte dei governi regionali e locali ed alle differenze di qualità, efficienza ed efficacia tra territori. Quella culturale, per le lacune della formazione e dell'informazione. E quella di reddito per la necessità di ovviare alle carenze dell'offerta con risorse proprie (il che ovviamente favorisce i più benestanti).
L'effetto peggiorativo si riscontra nella disponibilità di servizi (soprattutto quelli innovativi e della medicina di iniziativa e di prossimità), nei tempi di accesso alle prestazioni (liste di attesa), nella disponibilità di farmaci innovativi senza dilazioni e ritardi, nel rafforzamento della clinical governance, nella mobilità tra regioni, nella qualità percepita, per quanto riguarda i servizi. Ma colpisce ancora di più che il peggioramento della situazione sanitaria nel Mezzogiorno riguardi anche, ed in maniera ormai evidente, l'aumento delle cronicità e pluricronicità, il peggioramento degli stili di vita (obesità), la disattenzione per la prevenzione, la debolezza degli interventi di tipo riabilitativo e la carenza di assistenza di lunga durata.
Si verifica in sostanza la presenza di un crescente divide territoriale, che le misure fino ad oggi tentate, dalla definizione dei Lea, al lavoro sui costi standard, alle valutazioni da parte di valutatori esterni nell'ambito ad esempio dei programmi dei Piani di rientro, alla lotta agli sprechi, al tentativo di utilizzare risorse esterne (ad esempio europee), non hanno scalfito. Il Patto per la salute, di recente approvazione, pone correttamente alla base dell'accordo i principi di sostenibilità, equità, universalismo e investimento in salute, ma non sappiamo ancora se riuscirà nell'intento.
E' positivo quindi che, occupandosi di diritti e di valori, come fa la Associazione Dossetti, si consideri la revisione del titolo V e le prospettive di un riequilibrio verso le responsabilità centrali e l'omogeneità dei trattamenti. Allo scopo di contrastare un assetto che sembra aver rafforzato quello che il Censis anni fa ha definito il "neostatalismo regionale", e cioè l'appesantimento del carico burocratico e della spesa amministrativa, la conflittualità tra regioni e tra regioni e stato centrale (in particolare il Ministero dell'economia per la assegnazione delle risorse), l'accentuazione delle differenze nei modelli di organizzativi dei servizi con il risultato di una loro impermeabilità e difficile confrontabilità, con la conseguenza di effetti negativi sulla equità e sul diritto di tutti i cittadini ad essere tutelati nella propria salute in maniera adeguata ovunque essi risiedano.
La questione ha una sua importanza intrinseca per il rispetto dell'articolo 32 della Costituzione e, più in generale, per il rispetto dei valori collettivi della convivenza. Ma la questione ha valore anche per la tenuta del modello economico e politico nazionale. Analisi internazionali accreditate valutano il contributo degli investimenti in sanità al valore aggiunto superiore a quello degli investimenti in altri settori e segnalano come nel lungo periodo la sanità e la sua spesa incidano positivamente e con valori elevati sullo sviluppo economico. Calcoli effettuati parlano di un rapporto diretto e positivo tra anni di vita guadagnati e crescita del Pil. In ambito italiano, uno studio Censis ha stimato l'apporto delle cure sintomatiche di patologie lievi al prodotto interno lordo italiano del 2,2%, grazie alla riduzione delle assenze dal lavoro, ed un contributo alla crescita del Pil di un punto percentuale della spesa sanitaria di 0,26 punti.
Il rispetto dei diritti individuali e territoriali, nella salute e non solo, è quindi non solo un obbligo morale ed un riconoscimento dei principi etici, ma anche un contributo alla sostenibilità ed allo sviluppo economico e sociale del territorio. La stessa crisi di questi anni va combattuta con strumenti plurimi, tra cui anche il rispetto dei diritti, la lotta alle disuguaglianze e la promozione della salute fisica e mentale. Una sussidiarietà ben intesa, sia nel senso di una corretta ripartizione delle responsabilità lungo la linea verticale dei poteri pubblici, che nel senso di una partecipazione orizzontale di tutte le realtà vitali della società, è sicuramente da auspicare.