Dibattiti-e-Idee

PATTO SALUTE/ Formazione in corsia, qualità a rischio nei piccoli ospedali?

di Raffaele Calabrò (Commissione Affari sociali della Camera dei deputati)

Deve essere scritta nel Dna del nostro Paese, la tendenza a trasformare ogni dibattito in uno scontro culturale o ideologico, per cui la difesa della propria visione finisce paradossalmente per avere il sopravvento persino sul bene collettivo. E' quello che sta accadendo, in questi mesi, intorno alla riforma della formazione specialistica dei giovani medici, prevista dall'art. 22 del patto per la salute.

Qualcuno vorrebbe ridurre il tema alla storica contesa tra mondo universitario, additato, per un vecchio e anacronistico pregiudizio, come conservatore e quello ospedaliero considerato più incline al rinnovamento e alla modernità. Non si capisce che cosa c'è di anacronistico nell'attuale sistema di formazione dei medici specializzandi la cui ultima riforma, tra l'altro, risale al 2013 (legge Carrozza), basato su una rete che vede collaborare università e strutture del servizio sanitario sotto il coordinamento universitario e che finora ha garantito elevati standard qualitativi nella formazione del personale medico e che, comunque, può essere perfezionabile.

Bisogna sempre puntare a una maggiore qualità e in un'era in cui è predominante la tendenza a misurare il mondo sanitario in base a volume ed esiti di cura, si può senz'altro prevedere che facciano parte della rete soltanto quelle realtà - università e ospedali - che abbiano indici di complessità ed eccellenza, valutabili e misurabili.

Prendendo le distanze da ogni idea di scontro culturale, si può comprendere la pressione di quanti insistono per l'inserimento all'interno degli ospedali, di qualsiasi livello, di medici abilitati che ancora non hanno ottenuto l'accesso alle scuole di specializzazione.

Ma bisogna tenere conto delle conseguenze: ovvero sarebbero cosi inseriti, anche in sovrannumero, nelle scuole di specializzazione, dove rimarrebbe alla formazione universitaria solo la didattica formale, mentre quella professionalizzante sarebbe lasciata alla frequenza delle corsie degli ospedali, dove lavorano, di qualsiasi livello e qualità essi siano, prescindendo dalla complessità della casistica, necessaria ad una completa formazione.

Certo è senz'altro il modo più semplice per ovviare alla carenza di personale e per reperire risorse umane a basso costo, ma non è il modo migliore per formare adeguatamente una futura classe medica.

La radicalità della formula "alle università solo la didattica, alle corsie la formazione professionale" può essere sostituita da una soluzione che consentirebbe ai giovani di lavorare, garantendo agli ospedali maggiore personale, senza compromettere la qualità della formazione. Perché non prevedere l'assegnazione, con selezione pubblica, di contratti annuali rinnovabili, per non più di un triennio, sotto il controllo tutoriale dei medici strutturati, all'interno delle aziende Sanitarie, in attesa di entrare nel circuito formativo completo e di qualità delle scuole di specializzazione?

Si tratterebbe, naturalmente, di contratti che non costituiscono titolo per accedere ai ruoli del SSN né all'instaurazione di alcun rapporto di lavoro con lo stesso, insomma nessun titolo senza scuole di specializzazione, così in fondo fanno gli altri paesi Europei. Diamo ai giovani la possibilità di vivere una straordinaria esperienza professionale, agevoliamo le aziende sanitarie a reperire risorse umane, ma sarebbe contraddittorio, ora che ci siamo convinti che la sanità vive di esiti e volumi, criterio che deve caratterizzare anche l'organizzazione delle scuole di specializzazione, che i futuri camici bianchi si formino nei piccoli ospedali di periferia, dove l'eccellenza e la complessità della casistica non può essere di casa.

Sarebbe, anzi è, a rischio il diritto ad un'assistenza sanitaria di qualità, che prima ancora che di conti, efficienze e inefficienze, è fatta di medici che debbono formarsi nel migliore dei modi possibili.