Sentenze

Tar Lazio: quando i «tetti» ai privati sono illeciti

di Paola Ferrari

La Regione e il Comune non possono impedire l'apertura di una struttura sanitaria limitandosi a sostenere che ve ne sono a sufficienza sul territorio, in quanto in radicale contrasto con il decreto liberalizzazioni (n. 1/2012, legge n. 27/2012).

Lo ha chiarito la seconda sezione del Tar Lazio (sentenza n. 455/2014, depositata il 14 gennaio), accogliendo il ricorso del proprietario di un centro diagnostico che si era visto negare dalla Regione l'autorizzazione all'apertura di un presidio ambulatoriale polispecialistico nel Comune di Grottaferrata sulla base della dichiarata sufficienza di strutture in grado di rispondere al fabbisogno sanitario del territorio.

Una motivazione che, per il Tar, contrasta con la tassatività delle possibili restrizioni delle attività economiche e non risulta ragionevolmente e proporzionalmente connessa all'esigenza di «evitare possibili danni alla salute» di cui al Dl. La disciplina vigente, infatti, (art. 8 ter del Dlgs 502/1992, legge regionale del Lazio n. 4/2003 e regolamento regionale n. 2/2007) stabilisce che la verifica di compatibilità del progetto da parte della Regione è effettuata in rapporto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale, «anche al fine di meglio garantire l'accessibilità ai servizi e valorizzare le aree di insediamento prioritario di nuove strutture». Lo stesso decreto commissariale n. U0017 del 9 marzo 2010, che prevede un mero documento di valutazione con la stima del fabbisogno assistenziale, non può essere interpretato come introduttivo di un limite numerico vincolante per le strutture del servizio sanitario del Lazio, pena la sua «radicale nullità».

I giudici sono ferrei: «La pretesa di sottoporre le strutture sanitarie nella Regione a un contingente numerico massimo, prescindendo da ogni considerazione quantitativa e qualitativa circa i nuovi servizi offerti dai richiedenti l'autorizzazione e circa i servizi già presenti sul territorio in relazione alle esigenze della popolazione residente e fluttuante, non risulta in alcun modo connessa al superiore interesse pubblico generale alla tutela dell'inviolabile diritto alla salute». Al contrario, «è suscettibile sia di limitare i servizi di prevenzione e cura concretamente attivabili sul territorio, sia di ostacolare il miglioramento qualitativo e la riduzione dei prezzi dell'offerta privata e non convenzionata con il Ssn grazie alla concorrenza e alla conseguente facoltà di scelta dei pazienti fra strutture diverse».

Il "no" della Regione - continua il tribunale, richiamando anche la decisione n. 550/2013 del Consiglio di Stato e le segnalazioni dell'Antitrust - «tradisce quindi la sua estraneità alla superiore tutela del diritto alla salute e assume, al contrario, i tratti di una non consentita programmazione territoriale numerica autoritativa con prevalente finalità economica». Irragionevole e sproporzionata rispetto alle dichiarate finalità di tutela della salute, e «suscettibile di impedire l'ingresso di nuovi operatori economici ponendo un trattamento differenziato rispetto agli operatori già presenti sul mercato».