Lavoro e professione

Infermieri, dopo la prova del Covid e nel segno del Pnrr si apra una nuova fase per la professione

di Barbara Mangiacavalli *

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24 Esclusivo per Sanità24

Si celebra, quasi parallelamente al nostro Congresso nazionale, la Giornata internazionale dell’infermiere del 12 maggio. Quando sembra volgere al termine anche la fase di maggiore sofferenza per il Paese sul fronte della gestione della pandemia. Ventisette (27) mesi in cui, se mai ce ne fosse stato bisogno, noi infermieri abbiamo dimostrato a tutti cosa siamo in grado di fare e credo non ci sia da aggiungere altro. Solo qualcuno in malafede oggi potrebbe affermare di non sapere chi siamo, cosa rappresentiamo per la comunità, quali sono le nostre competenze e quali sono i nostri valori.
Si apre però una nuova fase, per il Paese e per la nostra professione.
Non intendiamo chiudere il bel libro di questo Congresso o il brutto libro del Covid, dimenticarci di tutto e voltare pagina.
Quello che abbiamo fatto, conosciuto, esperito, imparato, durante questo anno di Congresso itinerante e i quasi due anni e mezzo di pandemia resta scolpito nelle nostre esistenze, per aprire nuove strade, per disegnare nuovi orizzonti.
E non per vanagloria, non per "contare di più", non per ricevere una "pacca sulla spalla".
Ma perché ci siamo resi conto, girando l’Italia, incontrando colleghi, e contemporaneamente gestendo in prima linea le problematiche tutte legate alla pandemia, che l’Italia è un paese che sicuramente può contare sugli infermieri, perché siamo tanti e siamo decisivi in tutte le fasi di un’esistenza, dalla nascita al fine vita, ma rammarica constatare al contempo che l’Italia non è un paese per gli infermieri.
Un paradosso: siamo oltre 456mila infermieri in Italia, rappresentiamo da soli la metà di tutti i professionisti sanitari del Paese, e il 60% del personale sanitario che opera nel Ssn. Si direbbe, sulla carta, che la Sanità in Italia parli quindi la nostra lingua, essendo maggioranza.
E invece: modelli organizzativi vetusti, norme ordinamentali non aggiornate, miopie corporative di qualcun altro ci parlano una lingua antica, del passato, in cui non ci ritroviamo più. E questo rende poco appetibile la nostra professione.
Ma c’è un dato ancora più preoccupante: che i seppur pochi posti messi a bando ogni anno dalle nostre università per Infermieristica non vengono nemmeno coperti tutti. Noi, come le Regioni, chiediamo più posti per formare più infermieri, ma gli iscritti rischiano di essere sempre meno.
Così muore una professione.
Così si tradisce la fiducia che i cittadini hanno riposto in noi, soprattutto in noi che siamo stati vicino a loro in tutte le fasi della pandemia.
Così rischiamo di scomparire, come ben rappresentato dalle locandine che abbiamo lanciato per questo 12 maggio, che raffigurano figure di infermieri che si sgretolano, perché questo attualmente il rischio: restare ancorati al passato e scavare a mani nude tra le macerie lasciate a terra dal Covid.
Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla, come afferma Papa Francesco e amano ripetere molti esponenti del Governo. Ma a queste parole devono seguire dei fatti.
Abbiamo premiato 72 buone pratiche – ma molte altre avrebbero potuto ottenere analogo riconoscimento – assolutamente innovative e replicabili su tutto il territorio nazionale.
Questi sono fatti.
Buone pratiche che hanno dimostrato come le competenze da un lato e la prossimità dall’alto di noi infermieri siano in grado di garantire la migliore assistenza rispetto ai reali bisogni dei cittadini e, spesso, anche di dare nuova linfa rispetto all’assistenza tradizionalmente intesa. Abbiamo visto infermieri protagonisti di nuove iniziative nelle case della salute, a domicilio, in centri dedicati all’accoglienza e all’assistenza, nelle scuole, in alta montagna, in strutture dedicate ad anziani e fragili, nelle farmacie.
Mettiamo a disposizione del Paese, della intera comunità, le nostre competenze più avanzate, maturate in anni e anni di formazione e ricerca universitaria sugli ambiti più strategici per la nostra società contemporanea: l’invecchiamento della popolazione, la gestione delle cronicità, la qualità della vita dei più fragili, partendo dal primo luogo di cura e di assistenza che è il domicilio delle persone.
E il futuro della sanità dipenderà dalla capacità di lavorare insieme delle professioni, sanitarie e sociali.
Dalla necessità di una rete sanitaria territoriale capillare con un approccio proattivo che assicuri anche minor rischio di sviluppo, riacutizzazione e progressione delle condizioni croniche, una riduzione dei ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza, maggiore integrazione sociosanitaria con la possibilità di rispondere in modo personalizzato alle necessità della persona e della famiglia. Per questo sarà necessario, tra l’altro, personale sanitario specializzato, con possibilità di carriera adeguata.
L’infermiere che nasce con il Pnrr – e che tuttavia è già quello che opera oggi nei servizi sanitari e al quale le evidenze della pandemia hanno dato massima visibilità – è un infermiere formato ad hoc, specialista per aree di competenza, che si occupa del coordinamento dei servizi, ma anche della gestione e del monitoraggio dell’assistenza alla persona. Un infermiere che non ha maggiori responsabilità rispetto a quelle che gli sono già proprie oggi, ma che assume un ruolo di case manager per garantire che l’assistenza funzioni realmente sul territorio e che gli ospedali restino davvero luogo di elezione dell’acuzie e dei casi più gravi, mentre l’assistenza e la prossimità siano realmente patrimonio del territorio.
Attività, queste, a vantaggio:
- dei professionisti che potranno lavorare al meglio secondo la loro formazione peculiare
- dei cittadini che ovviamente troveranno un percorso efficiente e senza duplicazioni
- del sistema che eviterà colli di bottiglia nell’assistenza e spese inutili perché improduttive rispetto a una gestione organizzata dei servizi.
Occorre lavorare veramente sul cambio di paradigma e sul cambio di modelli anche partendo da un cambio di semantica che è espressione di una rivoluzione culturale ancora in larga parte assente.
Partendo dalla formazione, e dal corpo docente a cui questa è affidata.
Altro aspetto è che rischiamo di definire fabbisogni legandoli agli attuali modelli organizzativi che però devono essere cambiati: non si possono mettere professionisti nuovi con competenze nuove dentro modelli vecchi.
Questo è un argomento che chiediamo sia messo davvero nell'agenda politica e istituzionale, perché sia affrontato in maniera strutturata e si possa lavorare sulla definizione dei fabbisogni di personale mettendoli in rete, in una logica trasversale con un paradigma diverso, rispetto al quale sono chiamati in causa l'università, il nostro ministero vigilante, quello della Salute, le Regioni e i principali stakeholder, dalle aziende sanitarie pubbliche alle organizzazioni datoriali private.
In assoluto, vanno innovati i percorsi formativi delle professioni sanitarie e, per quanto riguarda le professioni che rappresento, il tema ormai imprescindibile è anche quello delle specializzazioni, orientando le lauree magistrali verso una formazione specialistica anche di tipo clinico.
È arrivato veramente il momento di provare a ripensare alle declinazioni dei diversi profili delle diverse professioni, agli sviluppi specialistici delle professioni in coerenza con i bisogni di salute della popolazione da un lato, ma anche con le finalità del servizio sanitario nazionale dall’altro.
Questo deve prevedere modifiche normative e non solo regolamentari. Significa mettere in conto riflessioni anche sugli aspetti contrattuali, non solo del pubblico, ma sulle evoluzioni che devono esserci anche nel sistema privato e privato accreditato, senza assolutamente dimenticare gli ambiti territoriali.
Un aspetto non meno rilevante, e in questo momento particolarmente critico, che tutto il Paese ha toccato con mano, resta purtroppo la carenza infermieristica. Le assunzioni fatte con i decreti d'emergenza – e non solo degli infermieri ovviamente - hanno comportato la creazione di un vuoto pneumatico in tutto quello che è fuori dal sistema sanitario nazionale, sguarnendo servizi e strutture che sono quelle che si occupano per tradizione e in gran parte proprio dei più fragili, del territorio.
Per questo auspichiamo il superamento definitivo del vincolo di esclusività per gli infermieri dipendenti pubblici, perché questo permetterebbe di utilizzare la risorsa professionale oggi esistente anche in maniera più flessibile più elastica ovviamente dentro norme e una governance definita, così come è accaduto per chi ha già superato il vincolo di esclusività, come la dirigenza sanitaria e la professione medica.
I 4 anni che abbiamo di fronte fino al 2026, anno di "chiusura" del Pnrr, sono anni che devono essere forieri di straordinari cambiamenti e rafforzamenti per le fondamenta del sistema sanitario. Per questo si deve fare lo sforzo di considerare la sanità come un insieme di professioni e non solo rispetto a una porzione di queste, atteggiamento che blocca la crescita e lo sviluppo di un nuovo modello.

* Presidente nazionale Fnopi


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