Medicina e ricerca

Non dimenticare l'Hiv nonostante l’emergenza Covid-19

di Anna Maria Cattelan *

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24 Esclusivo per Sanità24

Conosciamo Hiv e l’infezione ad esso correlata da circa 40 anni, ciononostante la diagnosi viene posta tardivamente assai più spesso di quanto si creda, vale a dire quando il sistema immunitario è già compromesso e sono presenti malattie opportunistiche che definiscono la diagnosi di Aids (lo stadio estremo dell’infezione da Hiv). Secondo i dati pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità, nel 2019 in Italia si sono registrate 2521 nuove diagnosi di Hiv, di cui il 59% in persone in fase avanzata di infezione (in termini scientifici significa avere un numero di linfociti CD4+ < 350 mm3, quando un soggetto immunocompetente si colloca nel “range” tra 500-1000). Altro dato particolarmente preoccupante è che sta progressivamente aumentando la proporzione dei soggetti che ricevono una diagnosi di infezione da Hiv in prossimità (vuol dire meno di 6 mesi) della diagnosi di malattia conclamata (diagnosi di Aids) : si è passati dal 48% del 2000 al 71% nel 2019. Questi sono i dati italiani, in realtà speculari a quanto si osserva in tutta Europa. Secondo l’eCDC, nel 2019 in tutta Europa il 53% delle persone con infezione da Hiv ha avuto una diagnosi tardiva, con % maggiori nell’Est e Centro Europa (56%) e leggermente minori (49%) nell’area occidentale.
Alcune domande divengono, a questo punto, ineludibili. La prima: cosa comporta in termini clinici e di sanità pubblica una diagnosi tardiva di Hiv? Come è intuitivo, il ritardo diagnostico comporta un’elevata probabilità di sviluppo di immunodeficienza severa che aumenta il rischio di sviluppo di patologie Hiv/Aids-correlate, a loro volta responsabili di lunghe ospedalizzazioni nonché di accresciuta mortalità. Questo perché gli alti livelli di replicazione virale di Hiv nel sangue e negli organi bersaglio dell’organismo rendono più difficoltoso il recupero immunologico in seguito all’inizio della terapia antiretrovirale e le patologie opportunistiche che nel frattempo si siano instaurate determinano con maggior frequenza esiti invalidanti/morte. Ma significa anche che il soggetto, inconsapevole dell’infezione da Hiv, ha continuato a trasmetterla per anni ai partners con cui abbia vissuto la normale vita sessuale, divenendo suo malgrado un untore di manzoniana memoria. Al contrario, un efficace trattamento dell’infezione da Hiv rende del tutto improbabile la trasmissione della malattia attraverso i rapporti sessuali, che costituiscono ormai in tutto il mondo industrializzato il principale meccanismo di diffusione dell’infezione. Intercettare (e trattare) precocemente l’infezione da Hiv è dunque fondamentale sia per garantire ai pazienti le migliori probabilità di recupero immunologico che per ridurre l’impatto della malattia a livello di popolazione generale.
Seconda domanda : com’è possibile vi sia un tale ritardo diagnostico, in Europa e in Italia in particolare ? I fattori sono molteplici. La mancanza di adeguate campagne di informazione e prevenzione, ad esempio, ed a partenza dalle scuole medie/superiori, lì dove ha inizio la vita sessuale del ragazzo/a. Ancora: il pregiudizio sociale riguardo una diagnosi, quella di Hiv, considerata appannaggio di categorie sociali erroneamente vissute come marginali o devianti (dipendenza da sostanze, omosessualità). Il pregiudizio sociale, io direi l’inadeguatezza culturale nell’interpretare la condizione di dipendente da sostanze e omosessuale, generano entrambe una mancata percezione del rischio da parte di chi non vi si riconosca, e la scotomizzazione del problema. Né va dimenticata la scarsa attenzione alla malattia da parte di molti medici (di famiglia e specialisti), restii ad affrontare l’argomento ed a prescrivere i test diagnostici che si impongono. Ciò può apparire persino paradossale, se si pensa alla semplicità e all’efficacia diagnostica nonché ai bassi costi economici degli attuali test di screening per Hiv, disponibili non solo in tutti i laboratori di analisi pubblici a privati, ma anche in diverse farmacie territoriali (in quest’ultimo caso, per auto-somministrazione).
Terza e ultima domanda (attesa, in fondo, sin dall’inizio di queste brevi notazioni): in quale misura l’attuale pandemia Covid-19 contribuisce al ritardo nella diagnosi di Hiv e si rende responsabile del peggioramento della prognosi nel singolo e di diffusione nella comunità ? Inutile negare che la pandemia non ha aiutato a favorire l’acceso ai test diagnostici, a iniziare tempestivamente le terapie là dove si identificasse il malato e, più in generale, a mantenere quel livello elevato di cura che è, da sempre, un fiore all’occhiello della sanità italiana in questo settore. Come infettivologi abbiamo cercato di disinnescare i rischi insiti nel “lockdown” mantenendo un adeguato livello di sorveglianza attraverso l’implementazione della telemedicina, attraverso la consegna a domicilio dei farmaci, attraverso l’apertura di canali di posta elettronica sapendo che i nostri pazienti, forse più di altri, hanno avuto paura di contrarre l’infezione Covid e si sono ulteriormente isolati, con un inevitabile peggioramento della loro qualità di vita. Abbiamo cioè cercato di evitare la caduta del malato Hiv in un circolo vizioso, che vede trascuratezza, depressione e abbandono della terapia normalmente assunta quali elementi mutuamente alleati nell’aggravare la malattia “per se” e l’eventuale trasmissione ad altri partners. Ci siamo riusciti? Difficile dirlo, probabilmente abbiamo fatto di più del vecchio messaggio nella bottiglia, e meno di quanto avremmo voluto. Ora - se n'è parlato al convegno Icar 2021 - è tempo di tornare ad Hiv con più organicità e continuità: Covid è stato, è tuttora, terribile compagno di viaggio, compagno che il vaccino può tuttavia contenere e alla fine relegare nella memoria storica dell’umanità. Non così Hiv, virus sino ad oggi capace di vanificare ogni sforzo in tal senso, in virtù della sua abilità nel mutare le caratteristiche antigeniche che permettono la costruzione di un vaccino efficace e risolutore. Ora ci attendono vecchie e nuove sfide nella gestione di Hiv, sia in termini di prevenzione che di terapia: non avremo ancora il vaccino, ma molto è stato fatto riguardo le possibilità di cura. Ad esempio, è prossima l’introduzione delle terapie "long-acting" (farmaci a lunga durata d’azione, con somministrazioni bimensili). Chiudo con un’ultima riflessione, che vuol essere anche una proposta. Covid-19 ci sta offrendo oggi l’opportunità di avere un grande numero di soggetti che accedono al Ssn per effettuare tamponi e vaccinazione: perché non offrire in contemporanea anche il test Hiv? È un’occasione a mio avviso imperdibile per sottoporre a “screening” il più gran numero di persone dall’inizio della pandemia Hiv.

* Direttore Unità operativa complessa Malattie infettive e tropicali, Azienda ospedaliera di Padova


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