Medicina e Ricerca

Occhio bionico: la clinica dona protesi hi-tech e intervento, l'équipe pubblica esegue. A Pisa vince l'alleanza Ssr-privato

di Manuela Perrone

Un microchip impiantato sopra la retina consentirà a una donna cieca di tornare a distinguere le sagome dei propri cari e a distinguere il giorno dalla notte: l'intervento di chirurgia retinica è stato eseguito giovedì scorso nella clinica San Rossore di Pisa dall'équipe di Stanislao Rizzo dell'azienda ospedaliera universitaria pisana. Un esempio virtuoso di collaborazione pubblico-privato.

La paziente è una siciliana di 52 anni che 27 anni fa ha perso la vista a causa di una retinite pigmentosa. La protesi Argus, prodotta in Califormia e applicata per ora su una decina di persone nel mondo (nove sono italiani), viene collocata all'interno e attorno all'occhio, e comprende
un'antenna e una matrice di elettrodi collegati alle cellule non
danneggiate. Il paziente indossa poi un paio di occhiali su cui è montata una piccola telecamera. Attraverso la microantenna, la telecamera trasmette le immagini e lo stimolo luminoso viene trasformato in impulso elettrico che viaggia attraverso il nervo ottico fino al cervello.

Il costo dell'intervento supera i 100mila euro: l'équipe di Rizzo, direttore della Chirurgia oftalmica dell'azienda ospedaliero universitaria pisana, è stata ospitata dalla casa di cura di proprietà della famiglia Madonna, che ha messo a disposizione il campo operatorio e sostenuto tutti i costi, compresi quelli del microchip. «È un'idea della mia famiglia quella di donare parte dei proventi delle attività a opere meritevoli di ricerca e tecnologia», spiega Andrea Madonna, presidente della casa di cura. «E così è nata la partnership con lo staff dell'azienda ospedaliero universitaria Pisana, il cui budget per questi interventi stava finendo. Volevamo dare un segnale: è possibile instaurare una collaborazione virtuosa tra privato e Servizio sanitario nazionale».

«Mi sembra di vivere un sogno», racconta la signora Eleonora, partita da Lentini (Siracusa) con i genitori per sottoporsi all'intervento. «Venticinque anni fa c'era solo disperazione per chi deve fare i conti con questa malattia che ti ruba la vista. Ma la scienza va avanti. Il medico che mi seguì da ragazza mi disse di non disperare. Oggi sono qui. E vivo questa opportunità di tornare a vedere, senza aspettative, con calma. Pian piano capirò dove riuscirò ad arrivare con l'aiuto della tecnologia».

La retinite pigmentosa è una malattia genetica e degenerativa dell'occhio, di cui in Italia soffronto circa 15mila persone, con picchi di concentrazione nelle Isole, dove in passato i matrimoni tra consanguinei hanno aumentato l'incidenza della patologia. «Dopo anni di buio - continua la paziente - ho sentito in televisione del primo impianto di protesi retinica. Ho preso contatti con l'ospedale toscano, ho mandato tutti i miei dati e
dopo pochissimo mi hanno chiamato per lo screening». Giovedì scorso l'intervento, dopodomani, invece, la prova del nove: indosserà gli occhiali e accenderà il microchip.

Un dispositivo hi-tech in continua evoluzione: oggi la protesi ha 60 elettrodi, il software è all'ottava versione, la telecamera è alla terza generazione. Già si parla di visione a colori. I tecnici californiani aggiornano di continuo gli strumenti. L'inventore del device (che costa circa 80mila euro) è lo scienziato Usa Mark Humayun che ha sviluppato la tecnologia a Los Angeles, ma è l'Italia ad aver debuttato per prima con gli
interventi, nel 2011 nell'ambito di un progetto della Regione Toscana,
mentre negli Usa l'ok del Fda e' arrivato a gennaio di quest'anno.

L'azienda universitario-ospedaliera pisana ha adesso in programma altri due interventi. Ma l'intervento non è per tutti. Spiega Stanislao Rizzo: «I pazienti devono essere over 25, in buona salute per potere affrontare
un'operazione di quattro ore, e devono avere visto fino a una certa età»,
affinché l'area della corteccia cerebrale collegata alla visione sia sviluppata. «Speriamo che la partnership con la casa di cura San Rossore sia solo la prima di una lunga serie», conclude Rizzo.«E che altri soggetti privati decidano di collaborare per potere offrire questa possibilità ad altri
pazienti».