Sentenze

Cassazione: ginecologo responsabile se non informa la gestante del rischio malformazioni

di Pietro Verna

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24 Esclusivo per Sanità24

Il medico deve informare la gestante sulle malformazioni fetali che potrebbero comportare rischi alla sua salute, altrimenti può essere chiamato a rispondere dei danni.
In questi termini, la Corte di Cassazione (sentenza 15 gennaio 2021, n. 653) si è pronunciata sull'applicazione dell'art. 6, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194 "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza", affermando i seguenti principi di diritto:

- «l'accertamento di processi patologici che possono provocare, con apprezzabile grado di probabilità, rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro consente il ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza laddove determini nella gestante [….] un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica, da accertarsi in concreto e caso per caso […], a prescindere dalla circostanza che l'anomalia o la malformazione si sia già prodotta e risulti strumentalmente o clinicamente accertata».

- «il medico che non informi correttamente e compiutamente la gestante dei rischi di malformazioni fetali correlate a una patologia dalla medesima contratta può essere chiamato a risarcire i danni conseguiti alla mancata interruzione della gravidanza alla quale la donna dimostri che sarebbe ricorsa a fronte di un grave pregiudizio per la sua salute fisica o psichica».

La pronuncia della Cassazione
I genitori di un bambino, nato con malformazioni comportanti una invalidità del 100%, avevano convenuto in giudizio un'azienda ospedaliera e un medico per sentirli condannare al risarcimento dei danni riconducibili al fatto che il medico, che aveva seguito la donna durante la gravidanza del nascituro, non l'aveva adeguatamente informata sui rischi di malformazioni correlati ad un' infezione da citomegalovirus da essa contratta alla 22^ settimana di gestazione.
I giudici di merito, il Tribunale e la Corte di appello di Roma, avevano respinto la domanda di risarcimento del danno perché la malformazione si era manifestata alla 28^ settimana «quando il feto già godeva di vita autonoma». Ragion per cui sarebbero mancate le condizioni previste dall'art. 6, lettera b), della legge n. 194 del 1978 («L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata […] quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna») perché prima di allora non erano stati accertati processi patologici che avrebbero potuto determinare anomalie o malformazioni del feto.

Tesi che non ha colto nel segno. La Suprema Corte ha esteso le condizioni per operare l'aborto terapeutico «alle situazioni in cui la patologia, ancorché non ancora esitata in menomazione fetale accertata, risulti comunque tale da poter determinare nella donna -che sia stata informata dei rischi per il feto- un grave pericolo per la sua salute psichica». Con la conseguenza che il medico ha l'obbligo di informare «compiutamente» la gestante della natura della patologia e dei suoi eventuali effetti sul nascituro, affinché la stessa abbia un quadro completo della situazione attuale e dei suoi possibili sviluppi. Il che non è avvenuto nel caso di specie: il medico aveva rassicurato la gestante, «escludendo categoricamente l'esistenza di rischi e affermando, comunque, l'impossibilità di ricorrere all'aborto terapeutico»


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