Sentenze

Il medico denuncia la paziente per lesione della reputazione ma viene condannato per malpractice

di Paola Ferrari

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24 Esclusivo per Sanità24

Affinché il diritto di critica del paziente nei confronti del medico non sfoci nella diffamazione, è necessario che: I) i fatti esposti siano veri o, quanto meno, l'accusatore sia fermamente e incolpevolmente, ancorché erroneamente, convinto della loro veridicità; II) la forma espositiva sia non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto alle censure espresse, bensì proporzionata e funzionale alla prospettazione di una violazione; III) i toni utilizzati dall'agente, pur se aspri e forti, non siano gravemente infamanti e gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione ed alla sede dell'esternazione, che tollera limiti più ampi alla tutela della reputazione (Cass.Pen. n. 9803/2021).

Con questa motivazione, il Tribunale ha dato torto al medico che chiamò in causa la paziente che aveva fatto una segnalazione all’ufficio relazioni con il pubblico per il risarcimento del danno alla reputazione e l’ha, anche, condannato per malpractice.

Un caso intrigante dal punto di vista deontologico e medico anche se, fortunatamente, con scarse conseguenze per il medico, quello descritto nella sentenza del Tribunale Vicenza sez. I, 20/01/2023, n.130.

I fatti

La paziente si recò presso il reparto di oculistica per una visita di controllo per un problema di iperemia congiuntivale. In tale occasione il medico provvedeva a modificare la terapia prescritta da altro collega che già aveva visitato la paziente qualche giorno prima.La paziente si recò nuovamente il giorno successivo al pronto soccorso a causa del protrarsi dei dolori all’occhio. In quella circostanza ritrovò il medesimo oculista che si limitò a confermare la terapia prescritta il giorno precedente.

In seguito, non passando i dolori, si rivolse per la terza volta, alla struttura dove un’altra dottoressa la sottopose ad una terapia risolutiva del sintomo.

Nel frattempo, la paziente si lamentò con l’ufficio relazioni con il pubblico dell’operato del medico che l’aveva visitata due volte e ritenuto, a suo dire inadeguato, a seguito del quale l’azienda aprì un procedimento disciplinare contro il medico che venne archiviato. Il medico, risentito dal comportamento della paziente, la chiamò in causa per sentirla condannare al pagamento di una somma in via equitativa determinata in euro 5.000,00 a titolo di risarcimento dei danni non patrimoniali conseguenti alla lesione della sua dignità e reputazione, sia personale che professionale, per essersi lamentata del suo operato presso la direzione del presidio ospedaliero scrivendo tra l'altro: “devo segnalare il comportamento del dott. XX., poiché l'ho trovato una persona strafottente, maleducata, villana e priva di umanità e comprensione verso chi soffre. Non lascia parlare le persone, non crede che provino dolori che loro dichiarano......una persona con il suo ruolo dovrebbe essere gentile, caritatevole e cercare di aiutare psicologicamente i pazienti che soffrono ...CHE CAMBI LAVORO!!!”.

Lamentarsi con l’ufficio preposto non è diffamazione

La presente vicenda, afferma il giudice, s'inquadra nell'alveo della responsabilità aquiliana di cui agli artt. 2043 e segg c.c., i cui elementi costitutivi sono la condotta, l'elemento psicologico, il danno ingiusto ed il nesso causale tra il fatto illecito ed il danno che, nella fattispecie, sono stati ritenuti insussistenti.

Occorre, afferma il giudice dopo avere richiamato numerose pronunce sul punto, “contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto spazio - temporale e dialettico nel quale sono state proferite, e verificare se i toni utilizzati dall'agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere" (Cass. n. 12180/2019, Cass. n. 32027 del 23/03/2018).

In particolare, prosegue la sentenza, in tale atto si evidenzia il disappunto della paziente, per essere stata visitata da un medico ospedaliero che, in base alla sua percezione dei fatti, non sarebbe stato in grado di ascoltarla, di interloquire con lei, di prestare la dovuta attenzione alle problematiche lamentate e, al contempo, la delusione per il trattamento ricevuto (si legga il passaggio in cui l'attrice dichiara “Una persona col suo ruolo dovrebbe essere gentile caritatevole e cercare di aiutare psicologicamente i pazienti che soffrono perché se no oltre al male uno si sente un verme umiliato e impotente. Che cambi lavoro !!”) e la soddisfazione per quello successivamente avuto dal dr. F. P. (“Finita la cura sempre con tanto dolore, con l'occhio bendato e 3 pastiglie antidolore al giorno, mi sono recata al pronto soccorso ed in reparto ho trovato il dott. F. P.: un angelo. Mi ha trattato con una gentilezza squisita e visitata a lungo e fatte molte domande sulla mia malattia e cambiato cure”).

La cartella clinica lacunosa si legge a favore del paziente

Ricevuta la citazione, la paziente si difese accusando il medico di malpractice ritenendo che il medico fosse incorso in un errore diagnostico per non aver rilevato l'uveite granulomatosa e, quindi, in un errore terapeutico, consistito nell'aver sospeso la terapia con Luxazone Collirio (corticosteroide) prescritta da altro medico in occasione della prima visita ospedaliera sostituendola con una terapia a base di Colbiocin Collirio (antibiotico). Lamentava, inoltre, che da tale condotta sarebbe derivata un prolungamento della malattia con postumi solo temporanei in sede di a.t.p., ha provveduto a quantificare in sette giorni di inabilità temporanea nella misura del 25%, valutando di grado “medio” la sofferenza psico-fisica patita dalla paziente in tale periodo.

Che quel danno fosse stato causato dal medico in effetti era dubbio ma il Giudice ha valorizzato il passo della relazione peritale nella quale si evidenziava che “non si dispone di elementi documentali idonei/sufficienti all'identificazione di eventuali discostamenti della condotta sanitaria posta in essere rispetto alla leges artis/buona pratica clinica, aventi sotto il profilo medico legale valenza di “errore”, diagnostico prognostico e/o terapeutico” . Ebbene, afferma la sentenza, va rammentato che, con riferimento ai casi di difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio in base al quale “in tema di responsabilità medica la tenuta lacunosa della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui anzi, in ossequio al principio di vicinanza della prova, è dato ricorrere a presunzioni se sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della parte contro la quale doveva dimostrarsi il fatto invocato. Tale principio opera non solo ai fini dell'accertamento dell'eventuale colpa del medico, ma anche in relazione alla stessa individuazione del nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente” (Cass. Civ. Sez. III 31.03.2016 n. 6209, conforme a Cass. 26 gennaio 2010, n. 1538, Cass. 27 aprile 2010, n. 10060, Cass. 31 marzo 2016, n. 6209).

Non avendo documentato il suo operato, il medico nonostante la sua responsabilità fosse dubbia, è stato condannato al risarcimento di circa 1500 euro di danni oltre ad una condanna alle spese per oltre 5000,00 euro.


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