Aziende e regioni

Si muore prima non tanto per la scarsa prevenzione ma per la ripartizione delle risorse Fsn che non tiene conto della povertà

di Raffaele Calabrò (capogruppo AP Commissione Affari sociali)

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24 Esclusivo per Sanità24

Senza nulla togliere al ruolo che gioca la prevenzione nelle aspettativa di vita di un popolo, siamo proprio certi che se avessimo investito maggiormente soltanto in questo settore, non ci troveremmo ugualmente oggi a fare i conti con un'allarmante e inedita riduzione della speranza di vita? I dati dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane sembrano confermare, o comunque vanno letti tenendo in debita considerazione, precedenti rapporti sullo stato di salute della sanità italiana. Soffermandoci, infatti, sui dati Regione per Regione, si evince che nelle realtà meridionali si vive dai 3 ai quattro anni di meno e allora la motivazione principale va ricercata, non tanto nel basso tasso di vaccinazioni e di screening, ma nella crescita di cittadini che rinunciano a curarsi per ticket eccessivamente gravosi. Cittadini che vivendo in Regioni con un Pil basso e, all'opposto, una tassazione elevata, non hanno neanche la possibilità di rivolgersi al privato per una diagnosi tempestiva, con tutte le conseguenze negative che ne derivano in termini di benessere e con un inevitabile incremento di mortalità.
Se al Sud l’aspettativa di vita registra una contrazione ancor più vistosa, sarebbe forse opportuno domandarsi se la causa non sia da ricercarsi anche nella organizzazione delle cure primarie che stenta a decollare. Senza una presa in carico del paziente completa, senza un’organizzazione dei servizi territoriali che preveda un percorso diagnostico terapeutico adeguato per evitare la cronicizzazione e o l’acutizzazione di patologie, potremmo ritrovarci un domani dinanzi a dati ancor più infausti.
La sensazione triste è che il clamore provocato dall’Osservatorio nazionale sulla salute sia già finito e che gli ultimi dati si limiteranno ad aggiungersi a quelli contenuti in precedenti studi ed analisi di altrettante prestigiose università. Cifre che danno ragione a quanti da anni chiedono, invano, che il riparto del finanziamento sanitario avvenga non più o non soltanto secondo criteri anagrafici, ma tenendo conto degli indicatori socio- economici e dei tassi di mortalità.
Dati che impongono un cambiamento nella politica di compartecipazione della spesa sanitaria, perché i ticket oggi sono sempre meno strumento di contenimento della spesa e sempre più un serio ostacolo all’accesso alle cure, in particolare nelle Regioni più povere. Occorrerebbe garantire cure gratuite soltanto alle fasce di reddito più basse e né l’evasione fiscale, piaga che questo Stato sembra non riuscire mai a sanare, può essere un alibi per lasciare milioni di cittadini privi del diritto alla salute.
Sarebbe bello se lo studio dell’Università Cattolica non rimanesse una semplice fotografia, ma desse impulso a un cambiamento forte per una ripartizione più equa delle risorse destinate alla sanità, per ticket meno onerosi e (perché no?) per reperire maggiori finanziamenti per la prevenzione. Il rischio è che il dato sulla speranza di vita, ad oggi, del tutto inedito non diventi un trend costante nei prossimi anni.


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