Aziende e regioni

Riforma Titolo V, le riforme necessarie a partire alle valutazioni sull'erogazione ottimale dei servizi pubblici

di Claudio Testuzza

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24 Esclusivo per Sanità24

Nel corso del convegno sul XVII Rapporto Meridiano Sanità, presentato a Roma da The European House Ambrosetti il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, ha bocciato in primis il regionalismo in sanità: «L a Riforma del Titolo V della Costituzione è il primo male della nostra sanità. Lo abbiamo visto in pandemia dove ogni Regione faceva Repubblica a parte generando un tasso di confusione e disaffezionamento del popolo italiano nelle Istituzioni. E peggio ancora alla nascita di tutti quei sentimenti negazionisti perché vedevano scelte diverse tra regione e regione».
Parlare di modifica del Titolo V, nella fase di particolare e sofferto impegno sanitario dovuto all’epidemia del Covid , sarebbe potuto sembrare velleitario, ma è stata proprio quella fase di emergenza a rilevare la difficoltà di continuare a procedere in un regionalismo ingovernabile. Con la legge 18 ottobre 2001, n. 3, approvata da una maggioranza di centrosinistra (Governo Amato II°) e poi confermata da referendum (nel frattempo era subentrata al Governo una nuova maggioranza di centrodestra guidata da Berlusconi), veniva riformato il titolo V della Costituzione, che trasferiva molti poteri dallo Stato centrale alle Regioni, dando di fatto piena attuazione all’articolo 5 della Costituzione che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica. Veniva, in sostanza, trasformato il nostro Stato in uno stato federale con la suddetta riforma chiamata "Federalismo a Costituzione invariata" (1.59/1997).
La riforma riconosceva alle Regioni l’autonomia legislativa, ovvero la possibilità di legiferare norme di rango primario. Sono specificate, nell’articolo 117, le materie di competenza delle Regioni fra le quali: ricerca scientifica e tecnologia, alimentazione; protezione civile; governo del territorio; previdenza complementare e integrativa; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e in ultimo, tutela della salute.
È una cosa giusta che la sanità sia in capo alle Regioni? Il tema è quello del livello di governo più adatto a prendere le decisioni in campo sanitario.
D’altronde anche a suo tempo non mancarono critiche. Ci furono giuristi che sollevarono molte perplessità sulla possibile tenuta dei conti soprattutto in termini di sanità e finanza locale. Anche all’interno dello stesso Consiglio dei ministri vi fu un'opposizione, ha ricordato l’ex ministro Vincenzo Visco, ma non fu recepita. L’opposizione era motivata soprattutto dalla soppressione della "clausola di supremazia", presente anche negli Stati Federali, che consente al Parlamento nazionale di intervenire nelle materie di competenza legislativa delle Regioni quando sono in gioco gli interessi strategici della Nazione.
Vale sottolineare, a questo riguardo, come ha avuto maniera d’ argomentare il professor Cassese rispondendo a una domanda nel merito, riprendendo anche quanto indicato dalle recenti sentenze della Corte Costituzionale, che "occorra assicurare un’unica ed esclusiva regia nazionale. Le misure di contrasto possono anche essere differenziate per territorio, ma debbono essere omogenee, nel senso di ispirarsi agli stessi criteri generali".
Non si tratta, quindi, di una battaglia ideologica tra fautori del regionalismo e fautori del centralismo. Ma va recepito, che un sistema decentrato per funzionare richiede che lo Stato abbia la capacità di intervenire quando sia necessario e non, come sfortunatamente è accaduto, di cercare compromessi invece di agire più d’imperio.
Il servizio sanitario viene definito nazionale perché deve avere un’organizzazione e un funzionamento uniforme sul territorio e il diritto alla salute deve essere uguale in Lombardia come in Calabria. Regionalismo, riconoscimento delle autonomie non vogliono dire costituzione di repubbliche indipendenti dove, malauguratamente, Lombardia e Calabria non seguono, come dice, sempre, il prof. Cassese, le "best practice" del Lazio.
Ogni Regione procede secondo un concetto di autonomia, sempre più stretto parente di quello di "anomia", (assenza di leggi) moltiplicando diseguaglianze nel trattamento di cittadini dello stesso Paese. Le risorse del Recovery Plan previste per finanziare la Missione 6 che arriveranno sono più di 20 miliardi, pari a quelle messe a disposizione delle Regioni negli ultimi venti anni dal Sistema sanitario nazionale attraverso gli accordi di programma per gli investimenti. Di questa imponente cifra solo il 65% è stato oggetto di accordi Stato-Regioni, mentre per il 35 % dei finanziamenti gli enti locali non sono stati in grado di presentare validi progetti. Assisteremo al miracolo che, in un quarto del tempo (cinque anni) previsto dal Recovery, le Regioni saranno in grado di realizzare quanto non fatto in passato?
Sono previste tutte cifre da capogiro, soprattutto perché ricadono nel contesto dell’originario riparto delle competenze tra Stato e Regioni che risale a 50 anni addietro, e a quello più specifico relativo alla sanità che è stato ridefinito vent’anni fa.
A questo punto, se dobbiamo essere realisti, il Titolo V della Costituzione, quello che riguarda le Regioni, la Province, e i Comuni richiede una nuova valutazione nel senso che certamente alcune funzioni dovranno ritornare dalle Regioni allo Stato ma anche, è possibile, in qualche caso viceversa. Alcuni compiti possono ora essere trasferiti anche alle Regioni.
Ma prima del percorso politico che ovviamente riguarda prevalentemente la riforma della Costituzione, bisognerà intraprendere un serio percorso tecnico-economico per definire quella che gli economisti chiamano la dimensione ottimale dell’erogazione dei servizi pubblici. Non ci si può nascondere che la spesa per la sanità costituisca i due terzi della finanza delle Regioni, nonché una gran parte dell’attività politica amministrativa delle stesse e che, quindi, il superamento dell’attuale Titolo V sarà molto difficile, ma non impossibile. Ma soprattutto, forse utile, come ha detto il Presidente di Confindustria Bonomi, a "sciogliere i nodi che imbrigliano lo sviluppo del paese".


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