Aziende e regioni
Il Ddl Calderoli faccia i conti con la perequazione pretesa dal dettato costituzionale
di Ettore Jorio *
24 Esclusivo per Sanità24
L’approvazione definitiva del Ddl Calderoli in Consiglio dei ministri sta animando il confronto sul tema del regionalismo asimmetrico. Invero, più che sulla autonomia legislativa differenziata, il dibattito è tutto politico, per molti versi contro la Costituzione, quella voluta il 2001 dal centrosinistra, promossa dalla Nazione con il referendum confermativo della decisione parlamentare e implementata nel 2012.
Si ritiene logico pertanto, allorquando si esamina il testo di un disegno di legge di così ampia portata applicativa, com’è quello finalizzato a generare un federalismo a geometria variabile, affrontarlo con la dovuta critica costruttiva, sottolineando soprattutto i difetti assoluti, che eventualmente esprime, ma anche le alternative che offre. Il tutto scevro da ogni genere di retropensiero politico.
La garanzia che manca
Il Ddl Calderoli al riguardo presenta una grave omissione, sottace del tutto la disciplina della perequazione. Ebbene, in proposito se ne sente parlare poco, privilegiando narrazioni più plateali e urlando il rischio di dividere il Paese. Sul tema se ne sentono troppe. La confusione è grande e per alcuni versi devastante.
Si confondono l’opzione offerta dalla Costituzione alle Regioni a statuto ordinario di incrementare la propria competenza legislativa esclusiva con le metodologie di finanziamento, recate dal federalismo fiscale, nonché con pre-determinazione dei Lep. Quei livelli essenziali delle prestazioni afferenti ai diritti civili e sociali che tutti, nessuno escluso, devono rivendicare dalla loro previsione costituzionale scritta 22 anni fa. Così facendo, va detto a coloro che hanno a cuore la sanità e l’assistenza sociale, si dimentica che questi ultimi, sotto la denominazione specializzata di Lea, sono stati gli unici a essere determinati con il Dpcm del 29 novembre 2001 e implementati anche con i già Liveas con un omologo provvedimento governativo emanato il Dpcm 12 dicembre 2017. In altre direzioni andrebbero rivolte le sollecitazioni, ove mai nell’aggiornamento dei cosiddetti nomenclatori messi da parte da un decennio e sulla programmazione sociosanitaria che non c’è dal 2006, a dimostrazione dell’attenzione delle politiche statali ad assicurare la tutela della salute alla nazione intera.
Detto questo, non significa propendere per l’esproprio delle competenze statali sulla salute, assolutamente. Lo Stato, infatti, determinerà i Lea, eserciterà le politiche di profilassi internazionale, valorizzerà i costi standard e individuerà i fabbisogni standard, eserciterà la perequazione garante dell’esigibilità per l’appunto dei Lea. Non solo. Dovrà tornare a esprimere un Piano sociosanitario nazionale, che sarà da guida sia per le Regioni che assumeranno, ai sensi dell’art. 116 Cost., la competenza esclusiva in materia di salute SI per quelle che non eserciteranno una siffatta scelta, nei confronti della quali lo Stato continuerà fare ciò che fa oggi.
Anzi dovrà fare molto di più di quanto non ha fatto dal 2001, allorquando la materia dell’assistenza sociale è rientrata nelle 20 residuali, determinando così uno scollamento tra la decisione politica della tutela della salute e quella dell’assistenza, concausa dei disastri registrati durante il Covid.
Cosa c’è dentro l’autonomia legislativa differenziata
Data per scontata la conoscenza delle regole di finanziamento che imporrà il federalismo fiscale - attraverso il ricorso ai costi e fabbisogni standard, che costituirà il superamento del criterio della spesa storica e quindi estremamente vantaggioso per la sanità mal percepita nel Mezzogiorno – si rende necessario entrare nel vivo dell’essenza del regionalismo asimmetrico. Meglio, entrare in tackle sulla ricaduta che avrà per le Regioni che decideranno di ricorrervi e per quelle che non lo faranno.
Queste ultime continueranno a legiferare nel dettaglio sulla base dei principi fondamentali sanciti dallo Stato nonché a rendere alle rispettive popolazioni, così come fanno oggi, i Lea sostenuti, non più dalla spesa storica, dai costi standard fissati dallo Stato e i fabbisogni standard anche essi dal medesimo sviluppati, sulla base degli indici di deprivazione e l’età media dei cittadini destinatari.
Quanto invece alle Regioni che opteranno per una maggiore autonomia legislativa, occorre fare un dovuto chiarimento. Il regionalismo differenziato offre, come detto, l’opportunità alle Regioni, beninteso a statuto ordinario, di rivendicare la materia della tutela della salute anche in tema di principi fondamentali, oggi di competenza dello Stato per come è per tutte le altre diciannove concorrenti.
Prescindendo dal fatto che i principi fondamentali, da chiunque vengano fissati, devono essere codificati in linea con quelli costituzionali. Ciò indipendentemente da chi li abbia tradotti in leggi ordinarie. Ne è la prova la copiosa giurisprudenza della Corte costituzionale, a volte severa nel riportare nell’alveo della Carta alcune legislazioni, statali e regionali, venutesi a generare da 22 anni in qua, perché mal concepite, sia in termini di principi fondamentali che di regolazioni di dettaglio, in quanto non in linea con la tutela della persona, con l’eguaglianza sostanziale, con l’universalità e uniformità delle prestazioni essenziali da rendere alla società.
Di conseguenza, viene naturale porsi la domanda su quali possano essere i pericoli e quali invece i vantaggi derivanti dall’applicazione del regionalismo asimmetrico. Ciò, beninteso, con a monte acquisiti: la definizione dei Lea e la loro puntuale revisione fondata sui fabbisogni epidemiologici ricorrenti; la valorizzazione dei costi standard; l’individuazione dei fabbisogni standard per area regionale; l’esigibilità della quota di perequazione assicurata a copertura della parte mancante al gettito fiscale per assicurare i Lea. Il tutto, meglio se assistito da una preventiva perequazione infrastrutturale, tanto da mettere in condizioni di parità le Regioni quanto a patrimonio produttivo dedicato alla tutela sociosanitaria.
I rischi latenti e le soluzioni
Il maggiore dei pericoli temuti è quello di venirsi a trovare di fronte a una legislazione regionale che faccia tanto male alla uniformità del Servizio sanitario nazionale da dividerlo in quindici servizi sanitari regionali, quante sono le Regioni a statuto ordinario. Ciò tenuto conto che le cinque regioni a statuto speciale, e quindi le due province autonome di Trento e Bolzano, hanno già competenza legislativa esclusiva, prova ne è – per mero esempio - l’esistenza in FVG delle uniche due Aziende sanitarie universitarie.
Al riguardo, necessita credere nell’effetto Costituzione e nella "guardiania" espressa dal Governo funzionale a impugnare le leggi regionali/provinciali che si discostino da essa. Il primo comma dell’art. 117 Cost. rappresenta una solida "garanzia fidejussoria". Obbliga, pena l’incostituzionalità, l’esercizio della potestà legislativa (quindi esercitata anche da Regioni e Province Autonome) al "rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". Ovvero, sancisce, che ogni velleitarismo regionale, debba essere messo da parte, specie in materia sociosanitaria, ivi compreso quello riferito a norme che possano incidere su pretese di finanziamento diverse da quelle scandite dall’art. 119 Cost. e legislazione attuativa al seguito (legge n. 42/2009 e suoi decreti delegati).
Quanto alle soluzioni possibili, praticabili con una differenziazione legislativa complessiva (principi fondamentali oltre il dettaglio), se ne posso intravedere diverse. A cominciare da una regolazione dell’accreditamento e contrattualizzazione degli erogatori privati secondo le regole sancite dalla recente legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021, ispiratrice dell’insediamento a regime di pratiche agonistiche di affidamento dei servizi salutari, per finire alla disciplina riorganizzativa dell’assistenza territoriale e ospedaliera più adeguata alle realtà geo-demografiche, al servizio farmaceutico al punto renderlo più presidiale nell’assistenza di prossimità, in quanto tale erogativo di maggiori prestazioni sociosanitarie e così via.
Insomma, la soluzione Calderoli offre, nel suo complesso sviluppo combinato con l’applicazione del federalismo fiscale di cui ai commi 791-801 della legge di bilancio per il 2023, una soluzione agli spasmodici desideri delle Regioni desiderose di una maggiore autonomia legislativa. Ma soprattutto assicura la svolta dalla spesa storica ai costi/fabbisogni standard a finanziare i Lea che emergeranno dalla loro rideterminazione. A condizione che si sia quella perequazione che la Costituzione pretende che, però, nel Ddl costituisce, ahinoi, la parola mancante!
* Università degli studi della Calabria
© RIPRODUZIONE RISERVATA