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Medicina, storia di una selezione

di Donatella Lippi, Storia della Medicina Università di Firenze

«Insegnerò la medicina ai miei figli, ai figli del mio maestro e agli allievi legati dal Giuramento medico, ma a nessun altro».
Questo il messaggio contenuto nel testo del Giuramento, che la tradizione ha proditoriamente attribuito a Ippocrate.

La formazione medica, circoscritta al rapporto genitoriale maestro-allievo, si sarebbe poi arroccata dietro l'impenetrabilità della lingua, il ceto sociale, i privilegi, ritagliandosi un suo spazio esclusivo, attraverso il distacco da altri professionisti della salute, privi di curriculum formativo certificato.

Il medico laico, insignito del titolo di doctus atque peritus, dotato di claritas del sapere, lucidus habitus scientifico, splendor dottrinale, diventa, così, protagonista di una elitaria ascesa, confluendo, nelle sue espressioni socialmente superiori, nella noblesse de robe, la nuova nobiltà di toga.

Università-Patriziato: un binomio, che escludeva automaticamente gli studenti delle classi inferiori, attraverso una strategia tacitamente concordata col potere centrale: figli e nipoti dei maestri erano esentati dai costi degli esami e se a Bologna, nel 1397, il titolo di dottore veniva conferito solo a un bolognese all'anno, la regola non valeva per figli, fratelli e nipoti dei doctores.

Ereditarietà delle cattedre, abbassamento dei livelli di insegnamento, diverso atteggiamento verso il sapere e verso il lavoro: i poteri statali, accollandosi l'onere del mantenimento delle Università, pretendevano un funzionamento regolare e allineato. In molti accettarono questo capestro e persero ogni valore l'autonomia dell'Università, il libero sviluppo dell'insegnamento, la dignità stessa del docente: alle corporazioni autonome, fonti di ricerca e di insegnamento, subentravano centri di formazione professionale al servizio degli Stati (J. Le Goff, 1979) e dal rapporto corporativo si passava a un modello paternalistico, ricalcato sul modello dei valori aristocratici feudali.

Nelle Facoltà di Medicina, l'incompatibilità tra attività fisiche e intellettuali sopravvisse, nel segno del conservatorismo, e il carattere libresco e teorico dell'insegnamento medico si accentuò: alla figura del professore, si sostituirono quelle dell'accademico e del cortigiano, in una frattura sempre più profonda tra scienza e insegnamento.

L'obiettivo assistenza-didattica-ricerca sarebbe tornato, in nuce, tra le ambizioni delle Facoltà mediche solo all'indomani dei riverberi della Rivoluzione francese, ricongiungendo le componenti teoriche e pratiche e restituendo dignità all'abilità manuale al letto del malato.

La divisione gerarchica dell'ordine medico rispecchiava, in effetti, le strutture che nella collettività erano articolate con una più netta definizione formale, ma con il mutare della società, cambiarono anche le sue strutture e le istituzioni mediche: con la lotta al ciarlatanesimo e all'esercizio abusivo della professione, e con l'aumento della domanda, anche membri delle classi medie e della piccola borghesia cominciarono a iscriversi alle Facoltà mediche, che si andavano facendo, per i tempi, sempre più affollate, con la conseguenza inevitabile di uno scadimento della preparazione. Non solo.

Novi homines, che non avevano tra i loro antenati un medico o un farmacista e che, quindi, non potevano fare riferimento alla tradizione familiare, necessitavano di una attenta educazione sul piano etico e deontologico: contro il decadimento della professione a "mestiere vilissimo", contro gli "affamati vampiri", i "neonati saputelli", i "medici mal avvisati ed oziosi", i "dottoroni intemperanti", i medici "faccendoni" e quelli "sciupatori di malati", i Galatei medici, che vennero pubblicati in questo periodo, delineavano le caratteristiche di fondo del medico ideale, in un continuo richiamo a etica ed etichetta.

Eppure, con la legge Casati, del 1859, e la riforma Gentile, del 1923, l'accesso alle Facoltà mediche prevedeva comunque un filtro selettivo: il liceo classico e, poi, anche il liceo scientifico. Dalla legge 910/1969, invece, l'accesso veniva consentito a tutti i possessori di un qualsiasi diploma di maturità, aprendo la strada a un afflusso travolgente di aspiranti medici.

Da qui, con le successive varianti, il decreto ministeriale con cui, nel 1987, il ministro Zecchino istituiva il numero chiuso nazionale, limitando poi, per legge, il numero degli studenti.
Correva l'anno 1999.

Il progetto distruttivo sarebbe stato compiuto dalla Riforma Gelmini, con cui abbiamo pianto la disgregazione di un sistema che, seppur imperfetto, rappresentava un riferimento identitario importante.

Sono ora diverse le reazioni alle dichiarazioni del ministro Giannini di voler eliminare il numero chiuso, sostituendolo con un modello che guarda alla Francia, con una selezione negli anni successivi: fanno paura i grandi numeri, la inadeguatezza delle strutture, i criteri della selezione posticipata.

Ma il ministro ha ragione: la «teoria di leggi sovrapposte, stratificate, senza un disegno cosciente» (S. Giannini) ha trasformato il sistema formativo nell'immagine biblica della statua gigantesca sognata da Nabucodonosor, con testa d'oro, petto d'argento, ventre di bronzo, gambe di ferro e debolissimi piedi d'argilla… un diavolo buffone Hallequin, col costume pieno di toppe e di rammendi...

Né la preparazione, né la vocazione di uno studente possono, infatti, essere valutate coi quiz a crocette. Né un'unica fatale selezione può decidere del destino di una vita.

Il percorso formativo, e in particolare quello del medico, chiedono una riflessione più estesa: non si cambia la tipologia di un edificio, sostituendone il tetto con qualche artificio architettonico. La struttura deve rispondere a particolari requisiti di sicurezza, di qualità, di efficienza; deve offrire una visione armonica; deve poggiare su fondamenta forti, per garantire una solida base di appoggio e la stabilità di tutta la costruzione.
Non a caso, l'espressione "edificante" porta in sé la parola latina aedes, "casa", "tempio", a sua volta legata alla radice greca di "fuoco". La aedes è quanto si costruisce intorno al fuoco: nel mondo morale, "edificante" allude a un esempio positivo, che induce al bene, che aiuta a crescere.
Anche lo storico Francesco Sacchini, agli inizi del XVII secolo, utilizzava la similitudine edificatoria: formazione come costruzione del sé, attraverso la gradualità, il lavoro, la valorizzazione e l'affinamento del "materiale da costruzione", che la natura fornisce.

«I giovani non sono vasi da riempire ma fiaccole d'accendere», scriveva Quintiliano nel I sec. d. C.
Di nuovo, la metafora di quel fuoco, che il titano Prometeo rubò agli dèi, per farne dono agli uomini: lo studio della Medicina non può iniziare al I anno di Università e concludersi, dopo sei anni, con tanta informazione, ornata da un serto di alloro e un tòcco di cartoncino nero.
Il passaggio epistemologico dal modello biomedico al modello bio-psico-sociale richiede la completa rilettura del percorso formativo, sollecita nuovi metodi, invoca nuovi contenuti, che partano da lontano e sappiano disegnare le condizioni per una Medicina più umana e, nello stesso tempo, per una Medicina umanistica.

Solo così, usciremo dalla prigione del ristretto pensiero intellettuale, evitando i pericoli mortali dei risultati tecnologici e i freddi bagliori dei fuochi fatui.