Imprese e mercato

La frenata del commercio globale e il prezzo dei muri

di Attilio Geroni

Il conto dei populismi e dei muri, che dei primi sono l'esempio fisico e ideologico più eclatante, è arrivato in anticipo sotto forma di una minor crescita del commercio internazionale, la più debole dal 2009. La World Trade Organization (Wto) ha rivisto al ribasso per evidenti ragioni congiunturali - che vanno dalla frenata della Cina alla recessione in Brasile e Russia alla perdita di velocità della ripresa americana per finire con la debolezza congenita dell'Eurozona - le stime del 2016.
Gli scambi globali aumenteranno solo dell'1,7% e non più del 2,8% previsto in aprile. Non accadeva da quindici anni che la crescita del commercio fosse più debole di quella dell'economia mondiale, prevista al 2,2%. Se dovessero consolidarsi, negli Stati Uniti come in Europa, l'ondata populista e il ritorno di fiamma degli Stati-Nazione, la tendenza potrebbe soltanto peggiorare in un quadro già desolante. Sotto la pressione migratoria, Schengen continua ad essere in pericolo; la Gran Bretagna ha scelto Brexit mettendo seriamente in dubbio l'accesso al mercato unico europeo; i negoziati per l'accordo commerciale transatlantico (Ttip) viaggiano su un binario morto aspettando il nuovo presidente americano. La stessa intesa di libero scambio già raggiunta tra Ue e Canada (Ceta) sarà sottoposta a un lungo e incerto processo di ratifica dei Parlamenti nazionali mentre la sua entrata in vigore provvisoria rischia di essere parecchio depotenziata.

È il momento nero del multilateralismo ed è naturale che a suonare l'allarme sia l'organizzazione internazionale – la Wto – che più di altre ha nel multilateralismo la sua ragion d'essere. Il ripiegamento su sé stessi è un fenomeno politico, economico e sociale che degenera nel protezionismo, in guerre commerciali a colpi di dazi e barriere non tariffarie dalle quali nessuno esce vincitore. I mondi chiusi e autosufficienti prefigurati da Donald Trump («se diventerò presidente usciremo dalla Wto») o dalla leader del Front National Marine Le Pen («se diventerò presidente usciremo dall'euro») sono risposte facili alla soluzione di problemi complessi, anche gravi. Nessuno, nemmeno Barack Obama nel suo autunno presidenziale, nega le distorsioni della che, come ha detto nell'ultimo discorso alle Nazioni Unite, andrà corretta per essere «meno iniqua e più inclusiva». Solo che le risposte sono facili, illusorie e rassicuranti soltanto nell'universo isolazionista dei tanti leader che vociferano contro i migranti o l'unione monetaria oppure contro “micro capri espiatori” come i frontalieri italiani. Queste stesse risposte sono invece terribilmente difficili, forse perché non all'altezza delle aspettative di un'opinione pubblica sempre più volubile e vulnerabile, per chi continua a difendere l'apertura economica sottintesa dal multilateralismo. E i cui detrattori rischiano invece di essere i protagonisti del calendario elettorale dei prossimi mesi. A cominciare dal referendum di domenica in Ungheria sui migranti e dal voto per le presidenziali Usa l'8 novembre, raramente si è registrata così tanta apprensione all'appuntamento con le urne. In ogni scadenza, con l'eccezione del probabile voto di dicembre in Spagna e della consultazione istituzionale in Italia, è la solidità della democrazia a essere messa alla prova: le presidenziali in Austria (dicembre), le politiche olandesi (marzo), le presidenziali in Francia (aprile e maggio) e il rinnovo del Bundestag in Germania (settembre). Appuntamenti che possono cambiare il corso della storia, negli Stati Uniti e in Europa, e dei rapporti transatlantici, con potenziali guadagni (o vittorie) delle forze populiste e un nuovo cortocircuito protezionista dell'economia globale.


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