Lavoro e professione

Dopo la riforma Gelmini si sono dimezzati i nuovi ricercatori universitari

di Marzio Bartoloni

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24 Esclusivo per Sanità24

Le assunzioni di ricercatori si sono praticamente dimezzate - circa 900 all’anno contro le 1700 del passato - e in più per la stragrande maggioranza (il 90%) hanno creato solo nuovo precariato. A quattro anni dall’entrata in vigore della riforma Gelmini dell’università il bilancio sugli ingressi di forze fresche nelle accademie è più che fallimentare. La promessa di atenei con le porte spalancate ai giovani cervelli si è trasformato in un miraggio. Con l’aggravante poi che i nuovi ingressi si sono concentrati soprattutto al Nord, poco al Centro e quasi nulla al Sud. E con un manipolo di atenei, circa una decina, a garantirsi circa metà dei nuovi contratti. L’amara fotografia è contenuta nella nuova indagine dell’Adi, l’associazione dei dottorandi italiani, che ha provato a fare il punto sul reclutamento dei famigerati (almeno negli atenei) ricercatori di tipo «a» e «b» (le nuove figure disegnate dalla riforma Gelmini). Ma anche sul destino forse ancora più amaro degli assegnisti di ricerca che nel 90% dei casi sono destinati a essere espulsi dalle accademie.

Gli effetti della riforma Gelmini
«Questa è una riforma che per la prima volta spalanca porte e finestre dell'Università ai giovani, ai giovani ricercatori, ai giovani studiosi». Così l’ex ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini il 26 novembre 2010, alla vigilia del varo della riforma dell’università (la 240/2010) alla Camera, annunciava in un video le novità per i giovani cervelli italiani che sostanzialmente mandavano in soffitta definitivamente la figura del ricercatore a tempo indeterminato a favore di nuovi percorsi contrattuali a tempo determinato che avrebbero dovuto rappresentare le prime tappe per l’ingresso definitivo nelle nostre università, con la promessa di diventare anche docente associato. A quattro anni dalla sua entrata in vigore la riforma su questo fronte ha praticamente dimezzato i nuovi ingressi : dai 1700 ricercatori a tempo indeterminato all’anno ante riforma a circa 900 a tempo determinato a regime (solo 137 nel 2011 primo anno di sperimentazione e poi 988 nel 2012 e 908 nel 2013 con previsioni su questo trend per il 2014). Con un dettaglio in più: la maggior parte dei contratti riguarda i ricercatori di tipo «a» (quelli precari), mentre pochissimi (13 nel 2012 e 96 nel 2013) riguardano quelli di tipo «b» che prospettano la possibilità di diventare professore associato, la cosiddetta «tenure track» all’italiana tanto sbandierata al momento del varo della riforma. Uno schiaffo in faccia ai giovani ricercatori che secondo l’Adi « appare come un modo per scaricare gli effetti dei tagli lineari ai finanziamenti agli atenei e del blocco del turn over sulla componente più debole della comunità accademica».

Le sperequazioni
Per i giovani ricercatori l’effetto di questa riforma è stata in pratica una sorta di condanna per un’intera generazione, nata tra la fine degli anniSettanta e la prima metà degli anni Ottanta, che «rimane sempre più incagliata nelle secche di un precariato privo di sbocchi occupazionali». «Il sintomo più preoccupante dell’aggravarsi di una “questione generazionale” nell'università italiana - insiste l’Adi nella sua indagine - è dato dall’aumento dell’età media degli assegnisti di ricerca, passata da 33 a 34 anni tra il 2006 e il 2013 e dalla contestuale diminuzione di 5 punti percentuali della quota degli under 40». Non basta: i tagli continui ai budget delle università e le nuove forme contrattuali hanno aumentato ancora di più le sperequazioni territoriali (Nord-Sud ma anche grandi atenei contro piccoli). Nel 2014 - rileva l’Adi nella sua indagine - il 49,1% dei bandi per assegni di ricerca è stato emanato nelle regioni settentrionali, il 36,5% al Centro e il 14,4% nel Mezzogiorno e nelle Isole. In più le prime 10 università per reclutamento di nuovi ricercatori di tipo «a» detengono da sole il 54% dell’intero contingente nazionale di posizioni del 2014. Mentre le prime 8 università per reclutamento di nuovi ricercatori di tipo «b» vantano da sole il 51% dell'intero contingente nazionale di posizioni del 2014.

Il destino degli assegnisti
Ancora più triste se possibile il destino di chi ha un contratto di assegno di ricerca (i contratti si possono cumulare fino a un massimo di 6 anni). Secondo le proiezioni costruite sulle capacità di assorbimento degli atenei (secondo gli standard del passato) sugli oltre 14mila assegnisti di ricerca attivi nelle università nel 2014 ben il 91,9% è destinato a essere espulso dalle università. Per non parlare poi delle disparità anche nei trattamenti (come il mancato riconoscimento dlel’indennità disoccupazionale) e la scarsissima rappresentanza negli organi di ateneo. «Siamo dinanzi a una sentenza senza appello, quella che sancisce il definitivo tracollo della riforma del reclutamento accademico introdotta con la Legge 240/2010», avverte il segretario dell’Adi Antonio Bonatesta. Che aggiunge: «La miscela di precarizzazione, sottrazione di risorse finanziarie e blocchi parziali al turn-over ci sta portando da un’università di massa a un’università di espulsione di massa, d’élite e territorialmente gerarchizzata». «Il tutto - continua Bonatesta - sulla pelle dei giovani ricercatori. Da anni proponiamo un'inversione di rotta, a partire dal rifinanziamento dell’Università e da due condizioni minime: da una parte, la semplificazione delle due figure di ricercatore in un’unica posizione pre-ruolo fornita di una vera tenure-track; dall’altra, il superamento dell'assegno di ricerca con una figura cuscinetto tra dottorato e pre-ruolo dotata di maggiori tutele sociali».


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