Lavoro e professione

Emergenze sanitarie: la comunicazione è la prima forma di soccorso ma serve competenza

di Alessandra Ferretti

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24 Esclusivo per Sanità24

Tante parole sono state spese sugli insegnamenti che l’esperienza del Covid-19 ci avrebbe lasciato, soprattutto in termini di conoscenze, azioni virtuose e preparazione della comunicazione del rischio. E in effetti, nel frattempo, molta letteratura e più linee-guida sono state scritte, aggiornate e perfezionate, soprattutto dalle istituzioni che si occupano di sanità pubblica: OMS, Unione Europea, Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, Ministero della Salute, tanto per citarne alcune.
A ben vedere da quanto sta accadendo nell’affrontare un’altra emergenza, quella relativa al cambiamento climatico, questi insegnamenti derivanti dall’esperienza Covid-19 non sono stati ancora messi del tutto a sistema, benché molti dei passi compiuti per prepararsi a una pandemia siano simili a quelli richiesti per adattarsi alle nuove minacce previste dal cambiamento climatico.
Per far comprendere meglio perché e come la comunicazione sia uno strumento fondamentale di sanità pubblica, arriva il volume di Cesare Buquicchio (già capo ufficio stampa del ministero della Salute dal 2019 al 2022), Cristiana Pulcinelli (giornalista professionista che si occupa di scienza e medicina) e Diana Romersi (infodemic manager accreditata da OMS), “La comunicazione nelle emergenze sanitarie. Gestione dell’infodemia e contrasto alla disinformazione come strumenti di sanità pubblica”, uscito per il Pensiero Scientifico Editore (Roma, 2023).
Il volume è una guida competente per tutti coloro che volessero comprendere appieno il ruolo della comunicazione in situazioni di crisi o di emergenza, sia come “rilettura” di ciò che è appena avvenuto con la pandemia, sia come strumento di apprendimento sui comportamenti da attuare per comunicare al meglio le attuali o prossime emergenze. Di fatto, il libro è pensato anzitutto per i professionisti che si trovano a gestire la comunicazione in tema di salute e come “stimolo per la sanità pubblica, per il Servizio sanitario nazionale, per tutte le istituzioni e per i singoli professionisti (…) per gestire l’infodemia e contrastare la disinformazione sui temi della salute e dell’ambiente, due dei bersagli prediletti delle distorsioni della comunicazione”.
Non è un caso che l’Oms, già il 4 febbraio 2020 ovvero nelle prime settimane di pandemia, abbia inserito la comunicazione del rischio “tra le azioni essenziali e urgenti da mettere in atto accanto ad analisi e previsioni epidemiologiche e al rafforzamento di laboratori e diagnostica”. Lo stesso concetto venne ribadito dal nostro Istituto Superiore di Sanità nel documento del 12 ottobre 2020 “Prevenzione e risposta a Covid-19”.
Nessun dubbio, dunque, che la comunicazione del rischio vada considerata “uno degli strumenti di sanità pubblica”, nonché, nel bel mezzo di un’emergenza, “la prima forma di soccorso”. La conditio sine qua non, tuttavia, è che questa comunicazione vada svolta a dovere.
Gli autori del volume hanno condotto un lavoro di sintesi e di integrazione tra le indicazioni fornite dello European center for disease prevention and control (ECDC) e i testi di preparazione e risposta di ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e altre istituzioni e ne hanno tratto un “quasi decalogo” di nove pilastri della comunicazione del rischio (“quasi” perché il decimo, l’infodemia, rappresenta un discorso a parte).
Ad una prima lettura, le nove azioni sembrano semplici ed immediate: costruire fiducia; comunicare l’incertezza; coinvolgere le comunità; fornire messaggi tempestivi, chiari, empatici, coerenti; coordinarsi tra istituzioni; ritagliare le informazioni sui bisogni; avere personale e budget dedicati; attivare pianificazione, simulazione, monitoraggio e valutazione; promuovere la relazione con social media e media tradizionali. E, ultimo, ma non ultimo, con capitolo a parte, la gestione dell’infodemia, che in questi ultimi tempi sta vedendo consolidarsi anche una figura ad hoc: l’infodemic manager, l’esperto capace di gestire l’infodemia.
Dicevamo che sembrano “azioni semplici ed immediate”, ma di fatto non è così, dal momento che gli attori coinvolti in queste azioni hanno professionalità molto diverse, e ciononostante dovrebbero avere anche conoscenze comuni e condivise che, appunto, non sono immediate: “come si scrive un comunicato stampa, come si pubblica una notizia sul sito di un’istituzione, come si parla in pubblico, quali sono le tecniche e le dinamiche di un’intervista televisiva o di un colloquio con il giornalista della carta stampata, come si gestisce una conferenza stampa”.
Lo ha spiegato bene il professor Luca Richeldi, direttore della S.C. di Pneumologia del Policlinico Gemelli di Roma, che nel suo libro “Il tesoro leggero” (Milano, Solferino Libri, 2021), citato dagli autori, scrive di quando si trovò, nel marzo 2020, alla conferenza stampa quotidiana nella sede della Protezione Civile, e di quanto si fosse trovato di colpo “disarmato davanti alle telecamere, alle domande dei giornalisti, al dovere di commentare, con qualche senso logico, i quasi ottocento morti di quel giorno”. Scrive il professore: “Ho cercato di impostare il mio commento sulle regole base di equilibrio di chiarezza, utilizzando semplicemente i tratti della mia personalità, ma l’impreparazione rispetto ai meccanismi della modalità comunicativa di massa ha rappresentato per me una lacuna profonda, dolorosa e pericolosa. Credo di non essere stato l’unico a trovarmi in questa situazione”. E poco dopo invita a una riflessione a monte della disponibilità dei singoli alla formazione permanente, ripartendo anzitutto dalle aule universitarie “per gettare basi formative rinnovate per le future generazioni di scienziati e di operatori sanitari”.
I tre autori del volume auspicano che si continui a lavorare e a mettere a sistema i tre insegnamenti del Covid-19 – se proprio doveva servire per ricordarceli: la preparazione sulla comunicazione del rischio in emergenza, il contrasto alla disinformazione e la gestione dell’infodemia, quest’ultima intesa come “sovrabbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rende difficile per la popolazione trovare fonti attendibili e una guida affidabile per sapere come comportarsi” (OMS, febbraio 2020, dal nuovo termine coniato presumibilmente da David J. Rothkopf che nel 2003 scriveva della Sars sul Washington Post).
Va ricordato, infatti, che i destinatari ultimi di questa comunicazione, da chiunque essa venga fatta (istituzioni, enti, professionisti singoli) ha un destinatario finale e uno soltanto: la popolazione generale. Che è estremamente variegata, perché presenta al suo interno anche fasce vulnerabili, ad esempio migranti, comunità minoritarie, popolazioni difficili da raggiungere, particolarmente a rischio per il loro accesso limitato a fonti di informazioni credibili e accurate. E che, in caso di emergenza o di crisi, si aspetta di essere soccorsa. Non più però in una modalità top-down, quanto in una circolare, in cui la comunicazione è intesa in termini di condivisione, confronto e partecipazione, essendo passata da un modello “Dad” (padre, in inglese, ma in tal caso acronimo per decide, announce, defend ovvero “decidi, annuncia e difendi”) a un modello “Son” (figlio, acronimo per share, open, negotiate ovvero “condividi, apriti e negozia”).
Ecco perché la sfida era e continua ad essere altissima. Ecco perché servono professionisti preparati, linee guida chiare e condivise, azioni di formazione e aggiornamento delle persone deputate a fare comunicazione, inserimento o potenziamento della comunicazione nei corsi di studi dei professionisti di domani, primi tra tutti gli operatori sanitari e quelli istituzionali.
Lo abbiamo già avuto davanti agli occhi con il Covid-19: la salute nostra, degli animali e dell’ambiente sono strettamente interconnesse, tanto da costituirne una sola, “One Health”, che è anche “circolare”, perché nessuna predomina sulle altre.
Semplice da capire, complesso da realizzare, ma chi ben comincia è a metà dell’opera.


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