Lavoro e professione

Silver Economy e riforme: i vantaggi di elevare l’età pensionabile volontaria a 72 anni

di Ettore Jorio

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24 Esclusivo per Sanità24

L’invecchiamento della popolazione esige di considerare gli ultra cinquantenni come una risorsa per un Paese che censisce vuoti di organico ovunque e in postazioni ove si esige una maggiore qualificazione. Un vulnus che azzoppa il Paese e mette in serie difficoltà il soddisfacimento dell’istanza sociale.

Il rapporto tra pensionati e occupati in Italia è sempre più sbilanciato, con un numero sempre maggiore dei primi e un numero sempre minore dei secondi.

A livello nazionale, il rapporto è ormai un poco meno che alla pari. Nel Mezzogiorno, invece, il numero di pensionati ha già superato di qualche lunghezza quello degli occupati. Questa situazione è causata da due fattori principali: la denatalità e la predominanza progressiva della cosiddetta Silver Economy. La denatalità, oramai strutturale, sta riducendo il numero di giovani che entrano nel mercato del lavoro, mentre l'invecchiamento della popolazione sta aumentando il numero di persone in quiescenza. Ciò mette a rischio la sostenibilità del sistema previdenziale italiano, che rischia di non avere più risorse sufficienti per pagare le pensioni, con un timore diffuso nelle generazioni future. Grandi preoccupazioni nei sistemi che forniscono il welfare assistenziale alle persone, con una sanità e una assistenza sociale al lumicino delle professionalità senza le quali tutto diventa inutile.

Di conseguenza, la spesa pubblica per le prestazioni afferenti ai diritti sociali è in costante aumento, a fronte tuttavia di risorse difficili da rendere disponibili ad hoc e un debito pubblico che esige, perché l’UE lo pretende, quote annue consistenti di quattrini funzionali al suo ripiano.

Nel 2022 la spesa dedicata al welfare ha raggiunto i 559,5 miliardi di euro, pari a oltre la metà della spesa pubblica totale. L'aumento della spesa sociale è principalmente dovuto alla crescita degli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, che sono cresciuti del 126,3% rispetto al 2012. Nel 2022, questi oneri sono stati pari a 157 miliardi di euro, con un aumento di 12 miliardi rispetto all'anno precedente. La spesa pensionistica previdenziale, nel 2022, ha avuto un'incidenza sul Pil del 12,97%. Queste sono le indicazioni sulle quali è intervenuto il presidente di “Itinerari Previdenziali”, Alberto Brambilla, giudicando il sistema pensionistico italiano sostenibile fino al 2035-2040, ma saranno necessari interventi finanziari consistenti per mantenere l'equilibrio, tra i quali il posticipo dei requisiti di pensionamento, incentivato dall’introduzione di un "superbonus" per chi prorogherebbe l’età pensionabile fino ai 71 anni.

Una utile riconsiderazione dell’anziano

Il nostro è una Paese con la nazione più anziana al mondo, destinata a peggiorare nella media rilevata ad oggi per l’esodo dei giovani e dei bambini che non nascono. Entro il 2050, la popolazione over 50 rappresenterà il 40% della popolazione totale. Ed è proprio questa fetta di popolazione che produce la più alta spesa nel nostro Paese, che rappresenterebbe – per un altro verso - la vera risorsa per sviluppare la Silver Economy.

Questo sarebbe possibile, favorendo l'occupazione delle persone anziane, ad esempio attraverso politiche di flessibilità lavorativa, oltre l’età attuale pensionabile. In altre parole, una persona in età pensionabile, ancora attiva a livello lavorativo, aiuterebbe ad incrementare il Pil, oltre che garantire i LEP. Questi ultimi da garantire per non abbassare le soglie della civiltà sociale, al di sotto della vivibilità.

Spostare la soglia, non andrebbe infatti in alcun modo ad incidere sulla qualità dei servizi resi, tutt’altro. Nel 2018, la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) definiva infatti una nuova soglia per definire la popolazione anziana, in linea con i cambiamenti sociali, economici e demografici che caratterizzano la nostra società. Se in passato i 65 anni erano considerati l'inizio della vecchiaia, oggi questa età rappresenta una fase intermedia della vita, caratterizzata da buone condizioni di salute e di inserimento sociale. Per queste motivazioni, la SIGG proponeva di ridefinire il concetto di anzianità, passando da 65 a 75 anni.

Siffatte considerazioni pongono il problema di come e cosa fare per contribuire al Sistema Sanitario nel senso di colmare la carenza di medici.

I numeri oggi rendono ardua ogni iniziativa. I dati del sistema della salute, già messo a dura prova dopo la pandemia, dimostrano un verosimile rischio di collasso per un difetto assoluto di organico. L’intervento è necessario in forma “strutturale a tempo determinato”. La sua scadenza coincide con l’arrivo dei rinforzi, prodotti da una riforma concreta e saggia della formazione degli operatori sociosanitari.

Entro il 2025, si stima che quasi 40.000 medici andranno in pensione, il che equivale a circa il 20% della forza lavoro medica totale. Il picco di pensionamenti si verificherà nei prossimi anni, con 12.763 uscite nel 2023, 12.748 nel 2024 e 13.156 nel 2025.

La situazione è aggravata dal fatto che la Salute è uno dei settori pubblici con la forza di lavoro più anziana e più aggredita dall’offerta privata che approfitta dei gap che presenta quella pubblica offrendo consistenti incentivi ai componenti il suo organico, alcuni dei quali messi sul piatto con modalità al di sotto dei principi di legalità.

La griglia del SSN è complessa

Il 45% degli ospedalieri e il 52% di pediatri e medici di famiglia hanno più di 60 anni. Senza tralasciare il fenomeno delle dimissioni volontarie, con almeno 3.000 medici all'anno che decidono di lasciare la professione, per il settore privato o nuove opportunità all’estero, o per chiedere il prepensionamento.

Ciò pone una seria minaccia al funzionamento all’assistenza sociosanitaria alla persona. I medici e gli operatori sanitari, nessuno escluso, sono essenziali per fornire cure mediche di qualità e nella quantità indispensabile alla vita. La loro carenza, peggio la loro presenza limitata oltre l’incredibile, potrebbe generare pericolosi ritardi nelle cure, anche vitali, liste d'attesa più lunghe e una riduzione della qualità delle prestazioni di base e specialistiche. Questo è quanto avviene nella erogazione attiva e a regime dell’assistenza sociosanitaria. Anche la formazione medica registra una enorme sofferenza. Anzi qui, a causa degli errori grossolani della passata programmazione, la situazione è ancor più preoccupante. Infatti, dal 2008 al 2021 si è registrata una contrazione del numero di docenti universitari, con una perdita di oltre 16 mila unità. Per quanto riguarda, poi, nello specifico, il personale universitario medico, nel 2022 la spesa è diminuita del 2,2% rispetto al 2021. Ciò andrebbe ad avere un impatto negativo sulla qualità della formazione dei medici, che ha già registrato una riduzione delle borse di studio per la formazione specialistica maggiore del 10%.Inoltre, il pensionamento del personale medico e la mancanza del turn over potrebbero portare al default assistenziale relativo e a serie difficoltà nel completare i progetti PNRR già avviati, con serie e negative conseguenze a livello economico.

La soluzione “semi-strutturale” unica ma tempestiva

Al riguardo, necessita introdurre una proroga a regime dell’età pensionabile volontaria a 72 anni, per tutti ivi compreso il personale universitario medico. Ciò porterebbe indubbi vantaggi. Intanto, lasciare l’opzione volontaria consentirebbe di non violare i diritti dei lavoratori medici. D’altra parte, quanto alla formazione, un professore universitario medico, in età pensionabile, potrebbe oggi contribuire maggiormente alla silver economy e ridurre la spesa pubblica per le pensioni, continuando a svolgere attività di ricerca e didattica, contribuendo così alla formazione delle nuove generazioni di medici e specialisti, contrapponendosi alla riduzione di personale universitario degli ultimi anni. Inoltre, i professori universitari medici potrebbero continuare a svolgere attività di assistenza ospedaliera, essendo personale già altamente qualificato, così come rispondere alla richiesta di formazione di figure altamente specializzate, che andrebbero poi a ricoprire i ruoli apicali che diventerebbero carenti con il successivo pensionamento di questi professori.Al riguardo, si conviene con la previsione recata nell’art. 4 emendato (Ciocchetti) del Milleproroghe che offrirebbe l’occasione ai medici, su base volontaria, di rimanere in servizio sino all’età di 72 anni a tutto il 31 dicembre 2025. Da qui, la misura definita “semi-strutturale”, in quanto verosimilmente non sufficiente a garantire il servizio nel frattempo che arrivino i ricambi.

Un gap da curare

In via generale, sia nella assistenza diffusa alla persona che nella formazione occorre che rimangano impegnati professionalmente i nonni medici solo che si vogliano, nel frattempo che crescano i nipoti-colleghi, assicurare i LEA ai padri. Ciò anche allo scopo, di investirli anche di una sorta di vigilanza etica, di evitare di trasformare le prestazioni salutari rese in ambito ospedaliero, soventemente rese con le dichiarazioni dei sintomi destinate ad un telefono-traduttore, in referti diagnostici e prescrizioni terapeutiche ascoltate in viva voce telefonica. Un percorso non affatto entusiasmante che sta prendendo sempre più piede con l’impiego all’ingrosso dei cubani&Co, ai quali tuttavia deve andare il ringraziamento di tutta una Nazione, vittima di chi non ha capito nulla di come stessero andando, a suo tempo, le cose ma ha avuto l’ardire di programmare ugualmente la salute degli italiani, generando il disastro.


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