Medicina e ricerca

Quelle epidemie che hanno cambiato la storia

di Donatella Lippi *

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Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie sino al 1850: questo il titolo della monumentale opera di Alfonso Corradi (1833-1892), pubblicata nelle Memorie della Società medico chirurgica di Bologna in sette volumi tra il 1865 e il 1895.
Corradi, che ebbe la cattedra di patologia generale dell'università di Modena, poi a Palermo e, infine, a Pavia, dove fu preside della facoltà di medicina e rettore dell'università, dette vita a un monumentale lavoro analitico, in sequenza diacronica, redatto sulla scorta di documenti conservati in archivi e biblioteche di tutta Italia.
La trattazione prende avvio dall’ottavo secolo a.C. e giunge fino al secolo XIX, registrando epidemie, carestie e le altre catastrofi naturali ad esse correlate, che hanno segnato la storia di questo lungo periodo.
Per quanto sia estremamente difficile individuare la reale natura delle grandi epidemie del passato, ove non ci siano i materiali biologici che ne forniscano evidenze certe, alcune grandi svolte epidemiologiche hanno segnato indiscutibilmente la storia della civiltà occidentale, imprimendo una traccia profonda anche sull’immaginario collettivo, contaminando la letteratura, l’espressione figurativa, la musica.
Le epidemie del XIV secolo determinarono, inevitabilmente, una svolta nella storia dell’Europa occidentale, provocando cambiamenti strutturali anche sul piano sociale ed economico: Alfonso Corradi ha ripercorso queste vicende, facendo emergere dalle pieghe del tessuto della grande storia gli episodi legati alle singole congiunture della patocenosi.
Nell’Europa indigente e ipoalimentata del Trecento, sopraggiunse la terribile catastrofe rappresentata dalla “Morte Nera”, causata dalla Yersinia pestis, un agente patogeno trasportato dalle pulci parassite dei ratti, ospiti a bordo delle navi: tra il 1348 e il 1782, ogni venticinque anni circa, si accendeva una poussée epidemica.
Dalla seconda metà del Settecento la peste scomparve dall’Europa, salvo sporadici casi: forse il Rattus norvegicus ebbe la meglio sul Rattus rattus, portatore della pulce che trasmette la peste all’uomo.
Sicuramente, venne potenziata la capacità di isolare i focolai epidemici e i cambiamenti nelle norme urbanistiche e le nuove tecniche costruttive delle case crearono ambienti molto meno ricettivi di topi e parassiti.
Inoltre, la Rivoluzione industriale, già avviata negli anni Trenta del XVIII secolo, mise in luce una inattesa “questione sociale”, che portò le nazioni industrializzate a dotarsi di una sia pure embrionale legislazione del lavoro e assistenziale, migliorando le condizioni socio-economiche e igienico-sanitarie di gran parte della popolazione dei Paesi occidentali.
L’evoluzione dell’agricoltura e l’aumento di produzione dei beni alimentari garantirono un migliore introito calorico, rinforzando le difese organiche della popolazione contro le malattie: per tutta questa diversa serie di circostanze, a partire dal XIX secolo, le epidemie di peste si allontanarono dalla scena europea, per terminare, nel 1844, con la peste egiziana, che chiuse la prospettiva sul Mediterraneo.
La peste si concentrò, allora, fuori dall’Europa, in India e Giappone, passando per Hong Kong e Taiwan: tra il 1894 e il 1906, a fronte di una vera e propria ecatombe, il medico svizzero francese Alexander Emile Jean Yersin (1863-1943), contemporaneamente a Shibasaburõ Kitasato (1853-1931), isolò ad Hong Kong, nel 1894, il bacillo della peste che
fu chiamato Pasteurella pestis, oggi noto come Yersinia pestis, e creò un siero efficace per
rallentare la progressione del morbo.
La peste di Marsiglia, 1720, fu l’ultimo grandioso episodio del morbo in Europa, ma non l’ultima delle epidemie. Influenza, vaiolo, morbillo, colera infierirono a lungo, ancora, colpendo con particolare virulenza i giovani adulti, con danni sociali rilevanti. E poi sifilide, tubercolosi, lebbra, fino alla grande pandemia di spagnola, nel 1918, e agli episodi epidemici più recenti.
Ma allo sguardo del medico non erano sfuggiti, nemmeno nel lontano passato, quegli episodi, che, seppur meno clamorosi, avevano lasciato un segno profondo nella numerosità della popolazione europea.
Scriveva Bernardo Canigiani (1524-1604), ambasciatore estense presso il duca di Toscana Cosimo I de’ Medici, il 3 dicembre 1562, al Duca di Ferrara:
«Io non ho potuto fuggir questo male, il quale mi ha fatto star tre dì nel letto con febre continua; per hoggi Dio gratia mi sono levato e spero esser guarito: qua questo mal si chiama mal del castion, e ve ne sono tanti malati che non vi è numero».
Proprio Alfonso Corradi considera questa epidemia, che si chiamò allora “mal del castrone” e “mal del montone”, per la tipica tosse “abbaiante”, come una “febbre catarrale”, che colpendo le vie respiratorie spesso si “frammescolava alla pneumonite”.
“Jnfreddagioni, catarri, tossi”: i malati subivano questi sintomi, così violenti, per tre o quattro giorni e, in molti casi, l’esito fu letale.
Nel giro di poco tempo, la malattia si estese a tutta Europa, accomunando in un analogo destino gli strati più bassi della popolazione, così come le famiglie nobili e abbienti, i commercianti, come i professionisti, in una catena causale, che, allora, era ancor più difficile di oggi a vedersi, a credersi, a combattersi.

* Storia della Medicina e Medical Humanities - Dipartimento di Medicina sperimentale e clinica Università degli Studi di Firenze


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