Medicina e ricerca

Humanitas: dalla ricerca sul cancro una chance per evitare complicanze da Covid-19

di Alessandra Ferretti

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La ricerca sul cancro esce dai suoi confini e aiuta a prevedere il decorso della malattia Covid-19 che in alcuni pazienti può risolversi senza complicanze e in altri aggravarsi fino al decesso. A fornire questo importante contributo è la "ri-scoperta" di una molecola coinvolta nei processi immunologici e di infiammazione, la pentrassina-3 (PTX3), i cui livelli circolanti nel sangue saranno decisivi per prevedere la risposta di ciascun paziente alla malattia e dunque per guidarne i trattamenti.

L'intuizione viene proprio dal gruppo di ricerca che all'inizio degli anni Novanta identificò il gene PTX3 e che, allora come oggi, è guidato da Alberto Mantovani, Direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University. Dopo i primi studi su un gruppo di pazienti in Humanitas, le osservazioni sono state estese a pazienti di controllo dell'Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) Papa Giovanni XXII di Bergamo, in collaborazione col gruppo di clinici e ricercatori guidato da Alessandro Rambaldi, direttore dell'Unità di Ematologia e del Dipartimento di Oncologia ed Ematologia e professore ordinario di Ematologia all'Università Statale di Milano. Lo studio, "Macrophage expression and prognostic significance of the long pentraxin PTX3 in COVID-19", è appena stato pubblicato su Nature Immunology.

"Già dalle prime indagini genetiche – spiega Mantovani – osservammo la presenza di un rischio legato al locus genico del cromosoma 3, informazione confermata anche da diversi altri gruppi di ricerca. Mentre negli Stati Uniti si identificavano reazioni di tipo immunitario in una parte dei pazienti Covid, dal canto nostro cominciammo ad analizzare le prime linee di difesa alla ricerca di marcatori di gravità (genetici e di infiammazione, ndr). Abbiamo sfruttato il meglio delle tecnologie molecolari, sviluppato analisi a cellula singola e utilizzato approcci sofisticati di intelligenza artificiale per decodificare la complessità dei dati. Alla fine della corsa, ci siamo imbattuti in una vecchia conoscenza, la PTX3, appunto, che secondo i nostri dati si caratterizza come il miglior indicatore di gravità della malattia".

Il risultato è giunto grazie al coinvolgimento di 96 pazienti in Humanitas e 54 al Papa Giovanni XXIII indagando i meccanismi dell'immunità innata a livello del sangue circolante e del polmone. Inoltre, grazie all'accesso ai dati e all'analisi bioinformatica supportata da intelligenza artificiale, lo studio ha esaminato i dati di pazienti residenti in Israele e negli Stati Uniti.

La pentrassina 3 è una molecola appartenente alla famiglia delle pentrassine "lunghe" (tra le pentrassine "corte" la più nota è la proteina C reattiva, il marcatore di infiammazione ancora più utilizzato a livello diagnostico). Normalmente, essa è presente a livelli bassissimi nell'organismo umano. Ma è sufficiente che si verifichi uno stimolo infiammatorio, affinché attivi una serie di meccanismi che ne aumentano rapidamente la concentrazione.
All'inizio degli anni Novanta la molecola venne identificata in laboratorio dal gruppo di ricerca di Mantovani, in collaborazione con colleghi australiani, come coinvolta sin dalle prime fasi della risposta infiammatoria, con la capacità di riconoscere certe classi fondamentali di microrganismi patogeni e di facilitarne l'eliminazione da parte delle cellule immunitarie.

Nel 2000 seguì la sua applicazione nelle diagnosi e la scoperta del suo ruolo, dapprima, nelle infezioni contro il fungo Aspergillus fumigatus (vedi Cecilia Garlanda et al., Non-redundant role of the long pentraxin PTX3 in anti-fungal innate immune response, in: Nature, 14 novembre 2020), quindi nella risposta immunitaria (2005).

Il 2015 segnò un'ulteriore svolta con la comprensione della capacità oncosoppressiva della PTX3, che si scoprì tenere sotto controllo la risposta infiammatoria frenando la formazione del cancro (vedi Eduardo Bonavita et al., PTX3 Is an Extrinsic Oncosuppressor Regulating Complement-Dependent Inflammation in Cancer, in: Cell, 12 febbraio 2015).
E così la storia di PTX3 approda ai giorni nostri, al tempo del Sars-CoV-2. "Nei pazienti malati di Covid-19 – spiega Mantovani -, questa molecola è presente a livelli alti nel sangue circolante, nei polmoni, nelle cellule della prima linea di difesa (i macrofagi) e nelle cellule che rivestono la superficie interna dei vasi sanguigni (l'endotelio vascolare). Informazioni importanti, dal momento che i pazienti malati di Covid-19 presentano una fortissima infiammazione (la sindrome di attivazione macrofagica), che porta a trombosi del microcircolo polmonare a livello delle cellule endoteliali. Grazie a reagenti e a un test messo a punto dai ricercatori di Humanitas, abbiamo verificato che la PTX3 potesse essere un marcatore di gravità". Oggi l'Istituto sta pianificando gli esperimenti insieme al San Gerardo e al San Raffaele per estendere ulteriormente lo studio e validarlo. All'interno dell'ospedale, sta mettendo il test a disposizione per uno studio prospettico guidato dai medici impegnati con i pazienti Covid, grazie alla collaborazione del Laboratorio di Analisi Cliniche guidato dalla dott.ssa Maria Teresa Sandri.

"Quando qui a Bergamo, la zona più colpita nella prima ondata, è scoppiata l'epidemia del Covid-19 – riferisce Rambaldi -, abbiamo svolto le prime osservazioni sul danno vascolare provocato dalla malattia, constatando l'elevata incidenza di trombosi e manifestazioni cliniche che testimoniavano un danno delle cellule endoteliali. Successivamente è emerso questo quadro infiammatorio esagerato, causato dalla reazione del sistema immunitario delle fasi iniziali dell'infiammazione nei confronti del virus. Abbiamo accolto l'ipotesi del professor Mantovani, che è stata confermata e che si è rivelata molto importante, perché predice lo stato di gravità del paziente, laddove il livello di proteina correla con la mortalità".
La PTX3 va esaminata non appena il paziente riceve una diagnosi. Per valutarne il livello, basta un semplice esame del sangue, test a basso costo e potenzialmente condivisibile con tutti.

"In questa fase dello studio – prosegue Rambaldi - dobbiamo trasferire un dato di ricerca a quello che auspichiamo possa diventare un dato consolidato di uso clinico routinario. Questo è l'aspetto che richiede ancora ricerca e che dobbiamo validare ulteriormente".
Conclude Mantovani: "La speranza è di combinare la predisposizione genetica, i difetti genetici (due elementi vicini ma differenti tra loro), l'autoimmunità e i marcatori dell'infiammazione, per dare al paziente giusto la diagnostica giusta e la terapia giusta. Detto altrimenti, lo sforzo che noi e altri abbiamo compiuto è consistito nel fare, in meno di un anno, quello che per il cancro si è fatto in 50 anni".


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