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Icar/ Covid, la lunga marcia dalla pandemia all'endemia e le prospettive di impiego degli antivirali

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A due anni e mezzo dal primo focolaio di infezione da Sars-Cov-2 in nord Italia, quattro pesanti “ondate” pandemiche, lockdown, quarantene, mascherine e una lunga, ma non troppo, sequenza di varianti virali, ultima in ordine cronologico ba5, sub-variante di Omicron, la più contagiosa in assoluto fino ad oggi, virologi ed epidemiologi di tutto il mondo prospettano in un futuro non troppo lontano il passaggio dalla pandemia all’endemia, una condizione in cui il virus Sars-Cov-2 e le sue contagiose varianti saranno stabilmente presenti e circoleranno nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato ma uniformemente distribuito nel tempo. Insomma, seppur con ciclicità stagionali e riuscendo a tenerlo sotto controllo in termini di ricadute sul sistema sanitario, il Covid-19 imparerà a convivere con noi e noi con lui, come ha spiegato in un ampio articolo apparso di recente sulla rivista scientifica Science la scienziata americana Jennie Lavine.
A che punto è la pandemia? Cos’è successo in questi ultimi due anni e mezzo e cosa ci prospetta il futuro? È presto per parlare di evoluzione della pandemia in endemia? E qual è lo stato dell’arte delle terapie farmacologiche e vaccini? Virologi, epidemiologi e infettivologi italiani presenti al 14° Icar – Italian Conference on Aids and Antiviral Research, fanno il punto sullo stato dell’arte del Covid-19, con alcune previsioni.
«La circolazione del virus nella popolazione oggi presenta uno scenario del tutto differente da quello dello scorso anno e ancora diverso rispetto a quello di due anni fa – dichiara Pier Luigi Lopalco, Professore di Igiene, Università del Salento – la pandemia si è evoluta ed è cambiata: nella prima fase abbiamo avuto ondate pandemiche massicce, ricoveri in rianimazione, altissimo numero di infetti e di decessi, riguardanti persone più spesso anziane e fragili, il tutto arginato con mascherine, distanziamento, quarantena, lockdown. Lo spartiacque è stato l’arrivo dei vaccini che hanno aumentato l’immunità di comunità, ridotto gradualmente il numero degli infetti e dei casi di malattia grave. Il virus ha continuato a circolare e a cambiare nelle sue varianti, alcune più contagiose di altre come Omicron. Poi sono arrivati gli anticorpi monoclonali e gli antivirali orali che permettono di curare precocemente l’infezione lieve-moderata. Ci aspettiamo che il virus continui a circolare e adattarsi, ma nel tempo vedremo picchi epidemici di malattia meno numerosi e meno gravi che grazie a vaccini e farmaci potremo controllare e non metteranno più in ginocchio il sistema sanitario. Insomma, passeremo gradualmente dall’emergenza alla gestione ordinaria di questa infezione».
La variante in assoluto più contagiosa fino ad oggi è Omicron, la quale da tempo ha iniziato a cambiare dando origine a sub-varianti più o meno contagiose, l’ultima ba5 che sta producendo significativi picchi di infezione in Portogallo e Germania e alcuni casi anche in Italia. «I dati accumulati tendono a ipotizzare di essere vicini al virus "optimo"; non va infatti dimenticato che un virus quando cambia troppo perde la sua capacità infettante – spiega Carlo Federico Perno, Professore di Microbiologia UniCamillus e Direttore di Microbiologia e Diagnostica di Immunologia Ospedale Pediatrico Bambino Gesu di Roma – il virus infatti cambia per riuscire a selezionare il ceppo perfetto, quello che replica al meglio, ma per ottenere ciò deve fare miliardi di tentativi di cui solo uno funziona. Esempio è la variante Omicron, tutti gli altri virus variati sono scomparsi. Dunque, è ragionevole pensare che questo virus continuerà a cambiare un po' ma potrebbe non avere più bisogno di cambiare troppo. Questa esigenza del virus di cambiare "il giusto" è il principio su cui fonda la sua azione il molnupiravir: tale farmaco ha la peculiarità di "forzare" il virus a continuare a cambiare immotivatamente; in tal modo si producono ceppi altissimamente variati che, in quanto tali, hanno perso la capacità infettante, e sono divenuti innocui. Questo meccanismo di azione di molnupiravir mima ciò che accade già in natura: gli enormi cambiamenti del virus non necessariamente portano a un guadagno, anzi, nella stragrande maggioranza dei casi il ceppo mutato non è infettante e quindi sparisce».
«I dati che abbiamo a disposizione ci dicono che lo studio registrativo, pubblicato su New England Journal of Medicine, ha dimostrato di ridurre nei pazienti che assumono molnupiravir del 50% sia i ricoveri ospedalieri sia l’evento morte – dice Matteo Bassetti, Direttore Clinica malattie Infettive Ospedale Policlinico San Martino di Genova – lo studio MOVe-OUT appena pubblicato sulla rivista scientifica Annals of Internal Medicine in questi giorni, dice che molnupiravir non solo riduce le ospedalizzazioni, non solo riduce la morte ma ha anche altri due effetti importanti: in quei pochi pazienti che vengono ricoverati la durata del ricovero è di 3 giorni inferiore rispetto a chi fa placebo; inoltre, riduce in maniera significativa le visite al pronto soccorso e le visite specifiche ambulatoriali. Al San Martino abbiamo trattato fino ad oggi più di 400 pazienti con molnupiravir e i risultati sono molto buoni. Abbiamo visto una riduzione significativa degli accessi in ospedale, ci ha consentito di gestire più persone a casa, che è sicuramente un vantaggio per il paziente e per il sistema sanitario. La Liguria è una delle regioni in cui si prescrivono di più gli antivirali orali. Il modello Liguria per la prescrizione di questi farmaci evidentemente è esportabile».
Oltre alla Liguria, un’altra regione virtuosa è il Lazio, al secondo posto dopo il Veneto per prescrizioni di antivirali orali ed esperienza dell’utilizzo di molnupiravir.
«Sicuramente avere la possibilità di utilizzare farmaci antivirali che riescono a bloccare l’evoluzione della malattia da Covid-19 in pazienti fragili ad alto rischio di progressione e ridurre le ospedalizzazioni è un’arma fondamentale nel contrasto al virus – sottolinea Massimo Andreoni, Professore di Malattie Infettive Università Tor Vergata di Roma e Direttore Scientifico Simit -. La nostra esperienza è assolutamente positiva. Abbiamo indicato per il trattamento con molnupiravir 278 pazienti al 7 giugno e il 55% di essi è giunto al nostro ambulatorio inviato dal medico di medicina generale. In tal senso siamo riusciti a creare un buon rapporto tra la medicina di base territoriale e il Policlinico di Tor Vergata. Il 90% dei pazienti ha beneficiato della somministrazione del farmaco. Molnupiravir è stato di gran lunga l’antivirale più prescritto sino ad oggi perché è facile da prescrivere, non ha interazioni farmacologiche e quindi i pazienti molto fragili che spesso utilizzano già diverse terapie hanno avuto la possibilità di avere un farmaco che è ben tollerato e non interagisce con altri medicinali. Si è dimostrato estremamente efficace, pochissimi sono stati i pazienti che hanno avuto bisogno del ricovero dopo il trattamento, quasi nulli gli effetti collaterali. Riteniamo che molnupiravir sia un’arma importante capace di bloccare l’evoluzione di malattia, considerato che il coronavirus non è affatto debellato. Dobbiamo imparare a usarlo molto più spesso e in maniera disinvolta».


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