Medicina e ricerca

Una mappa per aprire la "scatola nera" dell’impianto embrionale in Pma e migliorare il counseling alle coppie

di Laura Rienzi *

S
24 Esclusivo per Sanità24

Il successo di una procedura di Procreazione medicalmente assistita (Pma) dipende da diversi fattori, molti dei quali sono stati ampiamente studiati negli ultimi anni e hanno permesso un progresso impressionante nella valutazione embrionale. Altri però rimangono da scoprire sia nel laboratorio di embriologia che nella gestione clinica della coppia. Il progresso scientifico deve andare avanti, indagando il mistero dello sviluppo embrionale e del dialogo fra embrione e utero materno. Prendendo in considerazione tutti quei fattori di cui abbiamo conoscenza e su cui possiamo fare ricerca, c’è un nostro lavoro presentato al 39esimo congresso della Società europea di Medicina della riproduzione ed embriologia (ESHRE) in corso a Copenhagen che definirei una sorta di "cartina tornasole" di tutti i motivi per cui l’embrione non si impianta. E che potrà rappresentare uno strumento molto importante ai fini del counseling alle coppie, che potranno essere consigliate ancora meglio dagli specialisti, sia nei centri pubblici che nei centri privati, proprio a questa nuova "mappa".
I parametri più importanti che determinano la chance di successo sono indubbiamente il numero di ovociti recuperati, la qualità degli spermatozoi e l’ottenimento di un embrione competente (che oggi definiamo come un embrione allo stadio di blastocisti con un assetto cromosomico normale o euploide). Assumiamo ora che tutto vada come la coppia sperava: la stimolazione ormonale dà ottimi risultati e si recupera un buon numero di ovociti, gli spermatozoi permettono un buon tasso di fecondazione e in laboratorio si ottiene la tanto sperata blastocisti euploide, che statisticamente ha circa il 50% delle possibilità di impiantarsi nell’utero materno e dare luogo a una gravidanza a termine, preambolo di un bimbo in braccio. Ma l’obiettivo sfuma: l’embrione non si impianta e il test di gravidanza delude tutte le aspettative. Perché accade questo? Bisogna sottolineare che la fecondazione in vitro rimane un processo "naturale", ed è proprio la natura a prevedere dei filtri in modo che siano gli embrioni sani ad avere la più alta probabilità di svilupparsi. Il mancato impianto di una blastocisti è quindi spesso legato a un problema intrinseco nell’embrione stesso. Allora come fare a produrre embrioni più competenti ed evitare di trasferire embrioni non competenti?
Come gruppo Genera abbiamo guidato uno studio internazionale dal titolo "Opening the black box: why do euploid blastocysts fail to implant? A systematic review and meta analysis" con l’obiettivo di passare in rassegna tutti i possibili elementi che influenzano la competenza all’impianto di embrioni euploidi. Il lavoro, una metanalisi, è stato pubblicato poche settimane fa anche sulla rivista Human Reproduction Update.
Se oggi la scienza ci consente di arrivare fino al 50% di predizione del successo per trasferimento di un embrione euploide (cioè risultato cromosomicamente normale al test preimpianto), la sfida è capire perché l’atro 50% circa non si impianta. Questo range di non impianto è la "scatola nera". Per cercare di aprirla e di descriverne il contenuto abbiamo passato in rassegna tutti i lavori precedenti che avevano investigato i fattori associati al fallimento di impianto di embrioni euploidi. In tutto, abbiamo screenato oltre 1.600 studi e ne abbiamo individuati 416 che rientravano nei parametri di valutazione attendibili per rispondere a questa domanda.
Questi 416 studi sono stati divisi a seconda di quale fattore andassero ad approfondire: embrionale (es. la velocità di sviluppo, la qualità morfologica), materno (es. fattore endometriale, uterino, anamnestico, ormonale, nutrizionale), paterno (es. qualità del seme, età dell’uomo e frammentazione del Dna spermatico), clinico (es. protocolli di stimolazione ormonale, protocolli di preparazione al transfer) e di laboratorio (es. tecniche di coltura, protocolli di manipolazione). Tutto questo materiale è stato analizzato statisticamente e sono emerse alcune associazioni.
Sono state individuate diverse caratteristiche che hanno una maggiore influenza sul mancato impianto: a livello dell’embrione, una scarsa qualità del trofoectoderma o della blastocisti in toto, e uno sviluppo più lento; anche in presenza di blastocisti euploide, in donne ‘over 38’ si ha una lieve ma significativa riduzione del tasso di successo; un’esperienza pregressa di fallimento d’impianto; l’obesità (BMI oltre 30). Nulla è emerso a livello di fattore maschile, mentre dal punto di vista clinico, nel contesto della diagnosi preimpianto, è apparso meglio congelare l’embrione piuttosto che allungare di un giorno la coltura in attesa dell’esito diagnostico per eseguire il transfer a fresco. Ancora, una tecnica di biopsia meno invasiva che non prevede la manipolazione dell’embrione dall’incubatore in terza giornata di coltura, è apparsa associata a migliori risultati in termini di gravidanza. Questi sono i fattori che sono risultati significativi al fine di comprendere il perché di un fallimento: da domani, qualora si voglia investigare ulteriori fattori associati con il mancato impianto degli embrioni euploidi, non si potrà prescindere dal controllare prima per questi elementi. Inoltre, come dicevo questo studio sarà anche molto utile ai fini del counseling alle coppie, che potranno essere supportate ancora meglio nel loro percorso.
Altro elemento che abbiamo evidenziato nei nostri studi presentati all’ESHRE, un focus sul test genetico preimpianto per aneuploidie (PGT-A), la cui finalità è identificare gli embrioni con assetto cromosomico normale tra quelli prodotti durante un ciclo di Pma. Questi embrioni sono meno soggetti a rischio di aborto e hanno una maggior chance di risultare in una gravidanza a termine. Ma ha senso eseguire la PGT-A anche se sono stati ottenuti solamente 1-2 embrioni, piuttosto che procedere al trasferimento in utero senza alcuna informazione in più sul loro stato di salute? La risposta è sì, secondo uno studio Genera presentato a Copenhagen.
È vero che alcuni centri di Medicina della riproduzione non applicano la PGT-A in presenza di soli 1 o 2 embrioni per dare la possibilità alla paziente di tentare comunque il transfer, non essendoci la possibilità, nei fatti, di scegliere l’embrione più promettente. La differenza sta nel modo in cui si utilizza questo test: se concepito solo come un esame per la prioritizzazione degli embrioni da trasferire, daremmo ragione a questi centri. Se, invece, come siamo soliti fare presso il nostro gruppo, la PGT-A viene considerata un test cromosomico prenatale a tutti gli effetti, in grado di ridurre il rischio di aborto, minimizzare il rischio di gravidanze cromosomicamente anomale, e ridurre il tempo per concludere il proprio trattamento, a quel punto anche 1-2 blastocisti sono sufficienti per utilizzarla in maniera vantaggiosa. Secondo i dati raccolti, la PGT-A ha risparmiato in molte coppie transfer inutili e potenzialmente rischiosi, oltre che mediamente un mese di tempo per concludere con successo il loro trattamento. Il tasso di aborto nel gruppo senza PGT-A è risultato del 28% contro il 12% del gruppo con PGT-A. In sintesi, anche se si hanno 1-2 blastocisti e si ha indicazione alla PGT-A per età materna avanzata, si mantengono i vantaggi di questa tecnica: l’obiettivo di una gravidanza a termine può infatti essere ottenuto in questo modo con meno transfer e meno aborti, quindi meno tempo. I progressi scientifici in questo campo, sia nei centri pubblici che privati, hanno quindi permesso davvero di aiutare le coppie a ottimizzare tempi e modalità con cui ottenere una gravidanza.

* Professore associato, Dipartimento di science biomolecolari, Università "Carlo Bo" di Urbino, direttore scientifico gruppo Genera


© RIPRODUZIONE RISERVATA