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Vulvodinia: ne soffre 1 donna su 7, guarire si può ma medici e Ssn finora l’hanno ignorata. Una legge garantisca l'accesso alle cure

di Filippo Murina *

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24 Esclusivo per Sanità24

La vulvodinia, dolore cronico alla vulva della durata di almeno 3 mesi, è una condizione ancora poco conosciuta dagli stessi medici che, considerandola difficile da affrontare, la trascurano oppure tendono a liquidarla come "psicogena" e, quindi, di competenza dello psicologo. Al contrario, è un disturbo con solide basi biologiche, di competenza medica, a cui occorre dare dignità di malattia.
Più frequente di quanto si pensi, interessa dal 10 al 18% delle donne e si manifesta in ogni etnia e in diverse fasce d’età, concentrandosi soprattutto tra i 20-40 anni.
Nonostante sia così diffusa, la vulvodinia può rimanere a lungo non diagnosticata e non curata. Affette da una malattia "invisibile", le pazienti restano imprigionate in un calvario fisico ed emotivo invalidante, che ostacola la sfera relazionale, i rapporti sessuali, gli studi e l’attività lavorativa, con in più l’aggravante di essere considerate ipocondriache o affette da disturbi psicologici.
Attualmente, la vulvodinia non è inclusa nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), il che si traduce nell’assenza di esenzione per patologia, nella non copertura di tutta una serie di trattamenti e nella mancanza di centri ad hoc, in ambito di sanità pubblica, capaci di affrontare il problema. Molte donne sono costrette a intraprendere costose trasferte per l’assenza sul territorio di specialisti opportunamente formati. Inoltre, poiché la malattia, ad oggi, non è riconosciuta dal Servizio sanitario nazionale, numerose pazienti per motivi economici rinunciano totalmente o parzialmente alle terapie, che si svolgono prevalentemente in regime privatistico.
Per cambiare la situazione e affermare il diritto alla salute di chi soffre di questa patologia, il Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo ha redatto una proposta di legge che prevede una serie di azioni, tra le quali: il riconoscimento della vulvodinia nell’ambito delle malattie croniche e invalidanti e il suo inserimento nei Lea; la creazione, in ogni Regione italiana, di almeno un centro specializzato nella cura della vulvodinia, in grado di assicurare una presa in carico multidisciplinare; l’istituzione di una Commissione nazionale che stili delle linee guida per diagnosi e cura. Depositata alla Camera il 28 marzo 2022 e al Senato il 16 aprile 2022 con le firme di quasi tutti i gruppi parlamentari, la proposta di legge è stata anche presentata ufficialmente a Montecitorio il 3 maggio dello stesso anno. Sarebbe cruciale far ripartire l’iter per la sua approvazione e rendere, così, le cure davvero accessibili su tutto il territorio nazionale.
Anche perché guarire dalla vulvodinia è possibile. Servono più medici che conoscano e siano in grado di gestire questa condizione e un approccio terapeutico appropriato, non riducibile a una singola visita o a una prescrizione estemporanea. Dato il carattere multifattoriale della patologia, la terapia richiede un percorso che spesso deve essere multidisciplinare, con l’intervento, oltre che del ginecologo, anche dell’ostetrica, dell’osteopata, del gastroenterologo e del nutrizionista (per eventuali implicazioni a carico del tratto digerente), del neurologo, dell’urologo, del fisioterapista, dello psicosessuologo o dello psicoterapeuta. Di conseguenza, la strategia di cura dovrebbe essere multimodale, ossia avvalersi dell’uso di più strumenti terapeutici, in modo coordinato: prodotti topici, farmaci per via orale, trattamenti fisico-riabilitativi, infiltrazioni di anestetici o antinfiammatori, tecniche strumentali quali elettrostimolazione, radiofrequenza e laser, psicoterapia, dieta, norme di comportamento.
Le possibilità sono tante e ne sono in arrivo anche di nuove. Uno studio clinico appena pubblicato , ad esempio, ha dimostrato come un gel per uso topico a base di spermidina, veicolata da acido ialuronico, sia in grado di ridurre il dolore vestibolare (il tipo più frequente di vulvodinia) del 76% e di alleviare il disagio durante i rapporti sessuali (dispareunia) del 50%, in assenza di effetti collaterali. Risultati promettenti, quindi, nell’ambito di un approccio multimodale e con la necessità di selezionare accuratamente le pazienti che possono trarne beneficio, in base alle loro caratteristiche e alla tipologia di malattia.
Concludendo, è importante ribadire che oggi abbiamo la possibilità concreta di migliorare la qualità di vita delle donne con vulvodinia ma non esiste una cura "standard", adatta a qualunque paziente, perché ogni caso è complesso e investe diversi fattori. Occorre studiare uno specifico percorso di cura in cui la combinazione delle diverse opzioni terapeutiche venga definita sulle esigenze e le peculiarità di ogni singola donna.

* Direttore scientifico dell’Associazione italiana Vulvodinia Onlus, Responsabile Servizio di patologia del tratto genitale inferiore presso l'Ospedale V. Buzzi – Università di Milano


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