Sentenze

Cassazione/ Infarto da super lavoro, il dirigente medico può essere risarcito anche se non ha chiesto l’ampliamento dell’organizzazione

di Paola Ferrari

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24 Esclusivo per Sanità24

Il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile.
Infine, giuridicamente errata è l’affermazione, nella sentenza impugnata, secondo cui il ricorrente avrebbe avuto l’onere di allegare «quali concreti svantaggi, privazioni ed ostacoli sono derivati dalla menomazione denunciata». Ai fini della condanna del responsabile al risarcimento del danno è infatti sufficiente l’allegazione dell’evento dannoso (infarto) e del conseguente danno alla salute, temporaneo e permanente, mentre l’allegazione di altri «concreti svantaggi» è necessaria soltanto ai fini della eventuale richiesta di personalizzazione del danno.
Una sentenza destinata a fare storia quella emessa dalla Cassazione Civile, Sez. Lav., 28 febbraio 2023, n. 6008 che ha riconosciuto a un medico abruzzese il diritto al risarcimento del danno per l’infarto causato da superlavoro.
Il fatto
Un dirigente medico di primo livello in ortopedia e traumatologia, dipendente da un’azienda sanitaria abruzzese, convenne in giudizio l’azienda datrice di lavoro per chiederne la condanna al risarcimento del danno biologico conseguente all’infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell’organico che l’aveva costretto per molti anni a intollerabili ritmi e turni di lavoro.
Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale di Lanciano e la Corte d’Appello, in funzione di giudice del lavoro, respinsero la domanda, escludendo la responsabilità dell’ASL convenuta ai sensi dell’art. 2087 c.c., tenuto conto che essa non aveva il potere di aumentare l’organico e di assumere altri ortopedici, né di rifiutare ricoveri e prestazioni ai pazienti.
Da qui il ricorso per Cassazione proposto dal medico.
Il ruolo organizzativo del dirigente medico e sicurezza
Il medico denunciò violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione agli artt. 32, 35 e 41 Cost. nonché all’art. 15, comma 6, d.lgs. n. 502/92 .
Contestò, da un lato, il giudizio della corte d’appello secondo la quale l’Asl non sarebbe imputabile, a titolo di colpa, il mancato adeguamento dell’organico alle esigenze di servizio, dato il divieto legale di assumere altri dipendenti senza l’autorizzazione della Regione; dall’altro lato, l’affermazione secondo cui sarebbe stato lo stesso medico, in quanto dirigente medico, ad adottare i provvedimenti organizzativi determinanti le sue condizioni lavorative.
La prova del danno
Tesi respinta dalla Cassazione: ha respinto l’opinione della Corte di merito secondo la quale l’appellante non ha fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza.
In realtà, afferma la Corte, ciò che il ricorrente ha allegato – e che anche la Corte d’appello risulta avere dato per pacifico – è di essere stato sottoposto per molti anni a un superlavoro, ossia a turni e orari particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della normalità.
Oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica, ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche.
La responsabilità datoriale, ai sensi dell’art. 2087 c.c., afferma la sentenza ha natura contrattuale e che, di conseguenza, «incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo»
Errato è poi l’inserimento del tema della mancanza di autonomia della Asl nella decisione di assumere altro personale medico nell’ambito della motivazione sul mancato assolvimento degli oneri di allegazione e di prova gravanti sull’attore. Si tratta, infatti, di circostanza che potrebbe eventualmente rilevare quale «diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile», ovverosia di un aspetto che ricade nell’ambito dell’onere della prova liberatoria gravante sul datore di lavoro convenuto, una volta che il lavoratore abbia provato la nocività delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e il nesso causale tra quest’ultima e l’evento dannoso.
In tale ottica, ovverosia nell’ambito dell’accertamento sull’allegazione del datore di lavoro di avere fatto «tutto il possibile per evitare il danno», il giudice di merito avrebbe dovuto valutare i limiti all’autonomia dell’Asl nella decisione di assumere altro personale medico, unitamente a tutte le altre circostanze di fatto rilevanti, ivi compreso il ruolo dirigenziale del ricorrente all’interno dell’Asl.
Valore probatorio della concessione dell’equo indennizzo
Sul piano logico, è evidente che il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, afferma la Corte, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento danno , Il fatto che sia stata riconosciuta in sede amministrativa la causa di servizio ai fini dell’equo indennizzo e che sia stata prodotta in giudizio la relativa documentazione, se non vale come prova legale (vincolante per il giudice) del nesso causale, ben potrebbe essere prudentemente apprezzata, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., come prova sufficiente di quel nesso, in mancanza di elementi istruttori di segno contrario .
Inoltre, ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall'ambiente di lavoro, opera a favore del lavoratore l'inversione dell'onere della prova prevista dall'art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell'evento dannoso.
Infatti, l’autonomia dei due istituti (equo indennizzo e risarcimento del danno) non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia ai fini sia dell’equo indennizzo sia del risarcimento del danno biologico derivante dalla malattia.
E per l’accertamento dell’allegato danno alla salute, e della sua effettiva entità, può bene essere disposta una consulenza tecnica d’ufficio c.d. percipiente (che, a differenza di quella deducente, è mezzo di prova), in quanto volta alla diretta percezione di circostanze di fatto non altrimenti accertabili.


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