Medicina e ricerca

Dolore invisibile: l'importanza della comunicazione in assenza della tracciabilità

di Chiara Moretti*

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24 Esclusivo per Sanità24

Conosciamo il dolore, quello fisico, del corpo. Sappiamo cos’è perché ne abbiamo fatto esperienza nel corso della nostra vita, in un modo o in un altro. Possiamo ricordarlo, riviverlo, descriverlo ed è cosi che cerchiamo di rendere leggibile e di riconoscere un dolore a noi estraneo e a cui volgiamo avvicinarci. E tuttavia, nonostante le similitudini a cui poter ricorrere, difficilmente potremmo affermare con certezza di conoscere davvero il dolore quando è vissuto da una persona che è altro da noi, vicina o sconosciuta, e che prova a descrivercelo. Rendiamo così pensabile il dolore, pur sapendo che le sue caratteristiche, la sua severità, la sua “qualità”, restano connesse all’unicità dell’esperienza di chi, di quel dolore, in un momento specifico della sua vita, soffre.

Il dolore è un’esperienza comune che resta, al contempo, unica e privata. Non “colpisce” in maniera indistinta gli individui, non è “sentito” nelle stesse modalità come un semplice messaggio nocicettivo o un elemento puramente organico-biologico; esso è, al contrario, soggettivamente percepito per cui non è tanto una sensazione quanto ciò che la persona fa di quella sensazione. Per questa ragione sfugge all’oggettivazione, rimane inafferrabile nella caducità di ogni spiegazione e non può essere descritto senza che quella stessa descrizione si declini in un numero infinito di varianti.

Pur restando un fenomeno intimamente vissuto, i modi in cui lo manifestiamo e comunichiamo, così come le modalità attraverso cui cerchiamo di alleviarlo, rimandano a una dimensione sociale e pubblica del dolore, mettono cioè in luce come questo venga plasmato all’interno di contesti storici e sociali circoscritti, venga analizzato, compreso, spiegato e trattato per mezzo di specifiche forme di sapere, di prassi, pratiche e interventi. È guardando a questa dimensione che è possibile osservare come il dolore sia diventato un chiaro oggetto di attenzione medica, o meglio biomedica, ossia della medicina occidentale che pone particolare enfasi sulla realtà fisiologica e biologica della malattia e dell’infermità per spiegare le diverse forme di malessere del corpo.

Per la biomedicina, una medicina basata sull’evidenza - che vede un suo importante sviluppo con l’anatomia e quindi con la possibilità di esplorare visivamente l’interno del corpo, di osservare da vicino gli organi e il loro funzionamento per individuare anche l’origine stessa delle patologie -, il dolore è tuttavia difficile da classificare e da comprendere interamente poiché resta invisibile, si mostra ma in modalità differenti poiché non è visibile a un occhio che è normalmente inteso come fonte di conoscenza; viene riferito da chi ne soffre ma non può essere rintracciato nel corpo, sfuggendo da qualsiasi forma di vigilanza empirica. Situandosi al di fuori del dominio dello sguardo clinico, il dolore si colloca nel limite tra osservabile e non osservabile, tra quantificabile e non quantificabile, tra reale e irreale, tra legittimo e illegittimo.

In biomedicina non è solo il dolore in sé a essere invisibile; ciò che spesso sfugge infatti sono le sue conseguenze e i processi di trasformazione individuale che genera. Il dolore infatti non “avviene” solo nell’organismo biologico che abbiamo ma anche nel corpo che siamo e attraverso cui facciamo esperienza del e nel mondo, un’esperienza che necessariamente cambia e che andrebbe reintegrata nella relazione clinica e di cura. Questa reintegrazione permetterebbe non solo di rendere il dolore maggiormente condivisibile e comunicabile, ma consentirebbe anche di far dialogare più efficacemente la prospettiva di chi indaga la sofferenza con quella di chi ne fa esperienza. Se il dolore non può essere individuato tramite radiografie e risonanze, la mancanza di una sua tracciabilità non lo rende meno reale ed è in un atto di comunicazione che esso può rendersi visibile agli occhi di chi lo esamina.

* antropologa, docente a contratto presso il Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale dell’Università di Bologna


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