Medicina e ricerca

Malattie rare/ Le nuove chance di trattamento della sindrome emolitico-uremica atipica

di Gaetano La Manna *, Giuseppe Castellano **

S
24 Esclusivo per Sanità24

La sindrome emolitico-uremica atipica è una malattia rara che colpisce più di 600 pazienti in tutta la Penisola. Si caratterizza dall’attivazione cronica e incontrollata del sistema del complemento, un componente del sistema immunitario. Questa anomalia porta a uno stato di infiammazione cronica che causa il danneggiamento delle pareti dei vasi sanguigni. Ciò comporta un accumulo di piastrine e leucociti che aumenta enormemente il rischio di formazione di trombi. Il primo organo ad essere danneggiato, di solito, è il rene ma i danni possono estendersi a cuore, polmoni, cervello e sistema gastro-intestinale. Circa il 50% dei pazienti affetti dalla sindrome necessita di dialisi, soffre di danno renale permanente o va incontro a decesso entro il primo anno. Pur essendo una patologia su base genetica per il 50-70% dei casi (i geni coinvolti sono CHF, CHF3R, MCP, CFI, CFB E CR), per scatenarsi con sintomi evidenti è spesso necessario un evento, tecnicamente chiamato "trigger", come ad esempio la gravidanza, l’ipertensione maligna, un trapianto d’organo, una malattia renale, una patologia autoimmune, un tumore, un’infezione o l’abuso di alcuni farmaci. In passato per gestirla si ricorreva allo scambio o all’infusione di plasma ma questa strategia non si è mai dimostrata realmente efficace.
L’obiettivo primario del trattamento della sindrome consiste nello "spegnimento" del sistema del complemento e in particolare della proteina C5. Per farlo, sino a oggi si procedeva alla somministrazione di eculizumab, un anticorpo monoclonale umanizzato inibitore del complemento in grado di bloccare C5. Ora, grazie a ravulizumab, la cura della sindrome compie un ulteriore passo in avanti. La terapia non solo modifica radicalmente la storia naturale della malattia ma migliora sensibilmente la qualità di vita dei malati e dei loro famigliari. Si tratta di un inibitore della proteina C5 del complemento e potrà essere prescritta ai pazienti (adulti o bambini) sia naïve, agli inibitori del complemento, che già trattati con eculizumab (per almeno 3 mesi e che hanno evidenziato una risposta alla cura). L’Agenzia italiana del farmaco nei giorni scorsi ne ha approvato la rimborsabilità. L’anticorpo è stato sperimentato in due studi clinici di fase 3 multicentrici. Il primo a braccio singolo ha coinvolto pazienti adulti naive. Il secondo, condotto su malati in età pediatrica, è stato sviluppato a doppio braccio coinvolgendo sia pazienti naïve che pazienti già in trattamento con inibitori del complemento. La nuova terapia ha dimostrato un’inibizione immediata, completa e sostenuta di C5 in tutti i pazienti. In particolare, è stata valutata l’efficacia di ravulizumab in termini di risposta al trattamento della microangiopatia trombotica che rappresenta la manifestazione clinica più evidente della malattia. Negli adulti trattati con ravulizumab, il 53% ha avuto una risposta completa alla microangiopatia trombotica nel periodo iniziale di valutazione, pari a 26 settimane, e il 61% nei primi dodici mesi. Ravulizumab nella popolazione pediatrica ha raggiunto il tasso di risposta completa del 94,4% e il 100% hanno interrotto la dialisi.
La sindrome emolitico-uremica atipica, presentandosi spesso in forma acuta e colpendo sia adulti che bambini, compromette significativamente la qualità di vita e la gestione della malattia condiziona la quotidianità delle persone con SEUa e delle loro famiglie. Come sottolinea Paolo Chiandotto (Presidente Associazione Pazienti Progetto Alice Associazione per la lotta alla SEU) i benefici dell’allungamento del tempo tra un’infusione e l’altra sono importanti. Innanzitutto, questo significa recarsi meno volte in ospedale. Negli adulti occupati vuol dire perdere meno ore di lavoro, e la stessa cosa vale per i genitori dei piccoli affetti da malattia. Nei bambini, che fortunatamente sono una piccola percentuale, inoltre questo significa perdere meno giorni di scuola. Nel complesso questi vantaggi si traducono in un maggiore benessere generale poiché ci si sente meno "legati" all’ospedale. Infine, dato da non trascurare, minori somministrazioni significano minori costi per gli spostamenti da e verso il centro di cura, costi interamente a carico della persona affetta. È importante che l’innovazione terapeutica vada anche in questa direzione, consentendo che le esigenze della persona entrino organicamente nella gestione della malattia, ed è altrettanto importante che la sostenibilità del percorso di cura, soprattutto in malattie croniche, sia un obiettivo comune di tutti gli interlocutori del Sistema Salute.

* Professore Ordinario di Nefrologia presso l’Università di Bologna
** Direttore Struttura complessa, Professore associato di Nefrologia Università di Milano


© RIPRODUZIONE RISERVATA