Medicina e ricerca

Femminicidi/ Psicologi: il diritto-dovere al rispetto e alla giusta pena

di Stefano Milano*

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24 Esclusivo per Sanità24

Il tragico epilogo della relazione tra Giulia e Filippo ha invaso, da diversi giorni, quotidiani, settimanali e spazi televisivi, dove si alterna una moltitudine di “esperti” e si sentenzia sulle motivazioni di ciò che è accaduto, su quello che si sarebbe potuto fare per prevenirlo, su cosa si debba fare da ora in poi. Il neurologo Sorrentino, noto per le innumerevoli interviste in cui esprime il proprio parere su fatti di cronaca, è arrivato, addirittura, ad insinuare che una responsabilità, sia pure indiretta, l’abbiano gli psicologi che hanno avuto in cura Filippo per alcuni periodi. Arrivando ad affermare, testualmente, che “Turetta sarebbe dovuto andare da uno psichiatra, non da uno psicologo…Il cervello è un organo come tutti gli altri, quando c’è una persona che ha un tormento, un disturbo di natura psichiatrica, deve andare da uno specialista o anche dal medico di famiglia…” . Allo stesso tempo, Sorrentino sostiene che “la cura deve mirare a ristabilire un equilibrio mentale e la deve dare un esperto”. Sarebbe interessante sapere dal Dott. Sorrentino, specialista del cervello e non della mente, come potrebbe un medico di famiglia o un neurologo o uno psichiatra, ristabilire con un farmaco un equilibrio mentale. E in quanti casi, nella sua casistica, lui sia riuscito a farlo. Ancor di più quando lo stato mentale sottostante potrebbe essere un profondo risentimento, una profonda rabbia, una profonda frustrazione, un profondo deficit di risposta del sistema empatico o un mix di tutti questi articolati costrutti psicologici.
Il coordinamento nazionale degli psicologi, direttori di struttura complessa del SSN, avverte l’obbligo etico di sottolineare alcuni aspetti, troppo spesso fraintesi. Innanzitutto, non esistono pillole miracolose, né interventi “magici” che possano agire nel determinare o impedire le scelte comportamentali delle persone. L’essere umano, a differenza degli animali, agisce secondo il libero arbitrio. Ogni comportamento è frutto di una scelta che possiamo assumere in una direzione piuttosto che in un’altra. Ciò vale anche quando si soffra di un disturbo psicopatologico. Sono rarissimi i casi in cui un delitto si compie per conseguenza diretta di un sintomo psicopatologico, come, ad esempio, uccidere qualcuno obbedendo a voci di origine allucinatoria che impongono di farlo o altre analoghe situazioni.
Nella stragrande maggioranza dei casi il comportamento criminale è frutto di una scelta. Questa affermazione vale anche per i femminicidi. Ai periti, infatti, viene chiesto di stabilire se il soggetto, nel momento in cui compie il reato, sia capace di intendere e volere. Nel momento in cui compie il gesto, non in assoluto.
Se una persona ha un attaccamento morboso nei confronti della persona che dichiara di amare e la ritiene un suo possesso, ciò sicuramente non depone a favore del proprio equilibrio mentale. In ogni caso, ha la possibilità di compiere una scelta: rassegnarsi al fatto di essere stato lasciato - e affrontare la fine del rapporto - o uccidere la compagna, perché non sia di nessun altro. Quale che sia la scelta, potrà decidere se rendersi disponibile ad una cura che lo porti a modificare il suo modo di percepire se stesso e gli altri, la propria visione del mondo ed i propri comportamenti. Obiettivi, questi ultimi, difficilmente raggiungibili solo attraverso il ricorso a farmaci che, comunque, possono essere di ausilio, nell’accompagnare un processo psichico e relazionale, non certo nel definirlo in modo quasi meccanicistico.
Se la scelta ricade sulla soluzione estrema dell’omicidio, la persona dovrà confrontarsi con le conseguenze del proprio atto sotto il profilo anche penale e non invocare come alibi “uno stato di momentanea follia”. Pensiamo alle attenuanti per “delitto d’onore”, non più presenti nel nostro Codice Penale.
La risposta della Comunità all’evento criminale dell’omicidio non può che essere un’adeguata pena e correlato processo riabilitativo. Ciò riguarda anche i soggetti che soffrono di una psicopatologia e che hanno il diritto di essere trattati come gli altri perché quasi sempre la loro patologia non incide sulla loro capacità di intendere e volere, a parte limitatissimi casi. Sembra, purtroppo, che si vada in una direzione opposta. Dalla sentenza Raso* è stata “sdoganata” la diagnosi di un disturbo di personalità come lasciapassare per
l’impunità penale, con tantissimi autori di reati anche sanguinosi cui viene attribuita una pericolosità sociale ma viene anche riconosciuto un vizio di mente parziale o totale, per poi affollare le liste di attesa per ingresso in REMS (Residenze per la Misure di Sicurezza) rimanendo, nel frattempo, non presi in carico con il rischio di commettere nuovi reati.
La stessa Autorità Giudiziaria è in “sofferenza” nell’individuare misure di sicurezza che possano conciliare il principio del diritto alla sicurezza della collettività con quello della cura, spesso attivamente rifiutata.
Rassicura la consapevolezza che il crescente dialogo tra Magistratura e Servizi di Salute Mentale potrà condurre ad un maggiore discrimine tra comportamenti criminali - da trattare solo come reati e ai quali far seguire giuste pene - e i pochi comportamenti riconducibili direttamente a sintomi psicopatologici, cui far seguire una giusta cura in ambiente adeguato.
Auspichiamo fortemente un maggiore rispetto per il dolore dei familiari delle vittime di femminicidio e dei familiari di chi li commette.

*Per il Coordinamento Nazionale Psicologi Direttori di Struttura Complessa


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