Medicina e ricerca

La questione dei PFAS: approccio bilanciato e metodi innovativi di biorisanamento

di Tommaso Dragani*

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PFAS è l’acronimo che definisce una catena di carbonio completamente (per) o parzialmente (poli) fluorurata collegata a diversi gruppi funzionali, altrimenti note come «sostanze chimiche permanenti», per la loro persistenza nell’ambiente e nel nostro organismo. La diffusa presenza di contaminazione da PFAS, soprattutto nelle fonti idriche, solleva preoccupazioni a causa dei potenziali rischi per la salute e del bioaccumulo ambientale. L’inquinamento da PFAS risale a molti decenni addietro, in quanto subito dopo la seconda guerra mondiale, la produzione è esplosa grazie allo sviluppo industriale e all’invenzione di nuove sostanze con prestazioni chimico-fisiche molto elevate, che sono ormai insostituibili.
Il primo problema risiede però nella normativa: nell’UE, quelli più pericolosi (PFOS e PFOA) sono vietati o il loro utilizzo è severamente limitato da diversi anni; tuttavia, a causa della elevata produzione passata, restano presenti in maniera ubiquitaria nell’ambiente e nelle acque. Recentemente, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) ha pubblicato una proposta che di fatto comporterebbe un divieto totale della produzione e dell’uso di PFAS all’interno dell’UE. Se approvata, questa proposta vedrebbe l’UE mettere in atto il regime normativo più restrittivo al mondo; ciò nella piena consapevolezza del fatto che in alcuni casi non esistono attualmente sostanze chimiche alternative ai PFAS.
Vietare un’intera classe di sostanze chimiche non ha senso, soprattutto se il divieto riguarda solo la UE, perché la famiglia chimica dei PFAS comprende circa 12.000 composti con proprietà fisiche, chimiche, ambientali e biologiche molto diverse. Possono anche avere effetti negativi sulla salute come danni al fegato, malattie della tiroide, obesità, problemi di fertilità e cancro, ma per la maggior parte dei PFAS non ci sono prove di rischi per la salute, e vietarli in toto avrebbe forti conseguenze negative.
Infatti, il divieto proposto dalla UE, se attuato, comporterà l’interruzione della produzione di fluoropolimeri in Europa. I fluoropolimeri rappresentano una categoria distinta all’interno del gruppo PFAS a causa delle loro dimensioni molecolari significativamente più grandi, e delle loro strutture molecolari più complesse. Queste dimensioni molecolari elevate forniscono un vantaggio fondamentale: l’assorbimento da parte degli organismi viventi è limitato, riducendo così la probabilità di bioaccumulo. Inoltre, l’ingombro molecolare dei fluoropolimeri comporta la non solubilità in acqua, limitandone ulteriormente la capacità di dispersione nell’ambiente.
Questi materiali svolgono un ruolo vitale in diversi settori: sono utilizzati in dispositivi medici, computer, telefoni cellulari, motori aerospaziali, automobili, celle fotovoltaiche, motori elettrici, macchine per preparare farmaci, e altro ancora. Il divieto UE sull’uso dei fluoropolimeri, anche se programmato tra 10 anni, interromperebbe la ricerca scientifica e lo sviluppo di tali materiali in Europa, e renderebbe l’Europa un deserto industriale. È difficile stimare quale sarebbe il costo economico del divieto dei PFAS in UE, ma sarebbe molto alto.
Infine, dobbiamo ricordare che i PFAS che sono presenti nell’ambiente non andranno via da soli in seguito all’eventuale divieto assoluto dell’UE. Occorre trovare soluzioni praticabili, efficaci e poco costosi per risolvere e gestire l’inquinamento esistente. A tale scopo, il biorisanamento potrebbe svolgere un ruolo chiave; si tratta di un processo straordinario che sfrutta il potere metabolico dei microrganismi e dei loro enzimi per degradare i contaminanti in modo sicuro ed economico: non si basa su sostanze chimiche dannose o sull’incenerimento.
Il biorisanamento è un’opportunità promettente ma in gran parte non sfruttata che potrebbe presto migliorare significativamente la gestione della contaminazione da PFAS. L’esperienza decennale come direttore del laboratorio di ricerca di “Epidemiologia genetica e farmacogenomica” presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, rivolta a temi di tossicologia ed epidemiologia genetica, mi ha portato a fondare ASPIDIA, una startup dedicata a far avanzare la ricerca in questo campo a beneficio della salute pubblica e della sostenibilità ambientale.
Si tratta di un campo molto promettente per gli investimenti. Tutte le aziende coinvolte nei vari settori legati ai PFAS trarranno vantaggio da questa crescita del mercato. Si prevede che i servizi idrici e le società di gestione dei rifiuti effettueranno ingenti investimenti di capitale negli impianti di trattamento PFAS e nelle ricerche correlate. Un recente articolo di Financial Times evidenzia la crescente domanda di servizi di smaltimento di PFAS e stima il costo della bonifica dei siti PFAS negli Stati Uniti a circa 220 miliardi di dollari. Sebbene la strada appaia ancora lunga il segno è già tracciato, d’altra parte come ricordava Senofane: “gli dei non hanno certo svelato ogni cosa ai mortali fin da principio, ma ricercando gli uomini trovano a poco a poco il meglio”.

*Direttore scientifico di ASPIDIA


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