Sentenze

Consultori e contraccezione, il Tar boccia il ricorso del Movimento per la vita

di Massimo Luciani

Con la sentenza n. 8990 del 2016 del Tar Lazio, depositata in data odierna, è stato rigettato il ricorso della Federazione Movimento per la vita (e altri) avverso il decreto del Commissario ad acta per il rientro dal deficit sanitario concernente i percorsi di assistenza dei consultori regionali.

Le conclusioni del Tar
In conclusione, dunque, è possibile affermare che la sentenza in esame ha riconosciuto che il decreto assunto dal presidente Zingaretti in qualità di commissario ad acta per la sanità regionale: a) non viola il diritto all'obiezione di coscienza dei medici e anzi ne tiene pienamente conto; b) si pone in perfetta continuità con la legge statale; c) è stato adottato per la (ed è funzionale alla) garanzia di migliori e più elevati standard di efficienza del servizio sanitario regionale (peraltro congruenti con lo sforzo di governo e contenimento della spesa sanitaria regionale).

Respinte le tesi dei ricorrenti
Come ricorderete, i ricorrenti contestavano la disposizione del decreto che riteneva estranee all'ambito di operatività dell'obiezione di coscienza due “prestazioni” mediche:
I) la certificazione dello stato di gravidanza di cui all'art. 5, comma 3, della l. n. 194 del 1978;
II) la prescrizione dei farmaci contraccettivi d'urgenza (post-coitali).
La sentenza in commento si segnala per un'argomentazione particolarmente diffusa, attenta alla ricostruzione generale dei problemi dell'obiezione di coscienza e dell'interruzione volontaria di gravidanza e aperta all'utilizzo di argomenti tratti anche dalla giurisprudenza delle Corti e dagli orientamenti delle istituzioni internazionali (come la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e il Comitato europeo dei diritti sociali presso il Consiglio d'Europa).

I passaggi più rilevanti
Segnalo di seguito i passaggi che, a prima lettura, paiono i più rilevanti:
- in primo luogo il Tar, “Come del tutto correttamente rilevato dalla Regione” (par. 3.1.) censura il ricorso avversario per l'intento manifesto di “rimettere in discussione posizioni abortiste ed antiabortiste che hanno già trovato una loro composizione nella legge n. 194 del 1978 le cui disposizioni sono state confermate più volte dalla Corte Costituzionale”. Tale prospettiva di esame della questione sottintende che il Dca impugnato, invece, si era semplicemente posto nel sentiero tracciato dal legislatore statale, attuandolo anche in ragione delle specificità regionali;
- in questo senso il Tar riconosce che “la disposizione del decreto commissariale impugnato con la quale si è consentito che il medico obiettore di coscienza rilasci il certificato dello stato di gravidanza della donna interessata o ne attesti la volontà di interrompere la gravidanza” costituisce semplicemente l'“adempimento ai doveri professionali” del medico, in quanto implica “quella serie di conoscenze mediche specialistiche che caratterizzano più propriamente la professione medica” e non determina alcuna “compressione della libertà di coscienza […], posto soprattutto che la decisione relativa alla interruzione della gravidanza pure in presenza di detta certificazione spetta all'interessata che può recedere da tale proposito”;
- ne consegue che “è da escludere che l'attività di mero accertamento dello stato di gravidanza richiesta al medico di un Consultorio si presenti come atta a turbare la coscienza dell'obiettore”, trattandosi, invece, “di attività meramente preliminari non «legate in maniera indissolubile, in senso spaziale, cronologico e tecnico» al processo di interruzione della gravidanza secondo quanto dalla giurisprudenza penale anche risalente è pure specificato”;
- quanto alla prescrizione dei farmaci contraccettivi post-coitali, il Tar ha rigettato la censura “con cui parte ricorrente fa riferimento a due specifiche specialità medicinali attualmente in commercio che sortirebbero l'effetto di un aborto chimico, poiché non sarebbe possibile escludere che abbiano effetto anche in un momento successivo al concepimento, causando la perdita dell'embrione umano già formatosi”;
- tanto, per due ordini di ragioni. In primo luogo, la sentenza, dopo aver ripercorso il noto orientamento della Corte costituzionale e della giurisprudenza civile e amministrativa sul corretto bilanciamento tra il diritto alla salute della donna incinta e la tutela dell'embrione, afferma – ribadendo un proprio precedente – che “il legislatore abbia inteso quale evento interruttivo della gravidanza quello che interviene in una fase successiva all'annidamento dell'ovulo nell'utero materno”, mentre tali circostanze non si riscontrano con nell'uso di “metodiche anticoncezionali i cui effetti si esplicano in una fase anteriore all'annidamento dell'ovulo”;
- in ogni caso, ad avviso del Tar la censura qui in esame è anche “affidata ad affermazioni apodittiche” dei ricorrenti. Per tale profilo il Giudice amministrativo ha fatto “integrale riferimento alle controdeduzioni della Regione Lazio” e alla copiosa documentazione ufficiale, proveniente dall’Aifa, dall'Ema e dalla Società italiana della contraccezione e della Società medica italiana della contraccezione, concernente l’uso dei contraccettivi d'urgenza;
- la sentenza ha rigettato anche la tesi dei ricorrenti secondo cui la funzione dei consultori sarebbe quella di “fare tutto il possibile per evitare l'interruzione di gravidanza”, ritenendola del tutto errata alla luce della disciplina vigente in materia (d.P.C.M. 29 novembre 2001, recante elenco dei Livelli Essenziali di Assistenza; l. n. 405 del 1975, di istituzione dei Consultori familiari);
- Infine, il Tar ha escluso qualsiasi profilo di violazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (c.d. Carta di Nizza) e, al contrario, rifacendosi alla giurisprudenza della Corte Edu e del Comitato europeo dei diritti sociali, ha sottolineato il rischio di “persistenza di carenze nella fornitura del servizio di aborto in Italia a causa dell'obiezione di coscienza ed ha dunque sottolineato che queste situazioni possono comportare notevoli rischi per la salute e il benessere delle donne, in contrasto, dunque, con il diritto alla tutela della salute, come garantito dall'art. 11 della Carta sociale europea”.


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