Sentenze

Obbligo vaccinale, il fragile equilibrio tra diritti costituzionali al lavoro e alla salute collettiva

di Paola Ferrari

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24 Esclusivo per Sanità24

I recenti provvedimenti governativi hanno imposto l’obbligo vaccinale ai sanitari, ora esteso a tutti i dipendenti pubblici e ai 50enni. Restano numerosi dubbi, i problemi sorti sono molti: la responsabilità del medico certificatore, il diritto riservatezza delle persone a non veder sbandierate le proprie storie cliniche, l’esistenza o meno di un obbligo di sospensione del dipendente non vaccinato da parte delle strutture sanitarie, l’impugnazione delle sospensioni. Un delicato rapporto di equilibrio tra Ordini professionali, aziende sanitarie e responsabilità dei medici certificatori con conseguenze civili, penali, deontologiche per la redazione del certificato di esenzione nel caso in cui questo venga valutato palesemente falso ma anche quando le valutazioni del certificato non sono condivise.
L’ art. 4, d.l. n. 44 del 2021 (non modificato dall’art. 1, comma 1, d.l. 26 novembre 2021, n. 172 ) , nel comma 2, afferma che l’esenzione dalla vaccinazione per gli obbligati, viene meno solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale, nel rispetto delle circolari del Ministero della salute in materia di esenzione dalla vaccinazione anti Sars-CoV-2, non sussiste l'obbligo di cui al comma 1 e la vaccinazione può essere omessa o differita”.
La legge ricalca l’art. 24 del Codice di Deontologia medica secondo il quale: Il medico è tenuto a rilasciare alla persona assistita certificazioni relative allo stato di salute che attestino in modo puntuale e diligente i dati anamnestici raccolti e/o i rilievi clinici direttamente constatati od oggettivamente documentati”.
Temi intriganti che trovano nella giurisprudenza recente qualche prima risposta non sempre univoca.
L’ORDINE PROFESSIONALE NON È DEPUTATO AL CONTROLLO CLINICO DEL CERTIFICATO
Il Consiglio di Stato, sezione III con ord. 22 dicembre 2021, n. 6790 , richiamando la precedente sentenza 8454 del 20 dicembre 2021, ha chiarito che compete all’Azienda sanitaria locale la decisione finale in ordine alla necessità di derogare all’obbligo vaccinale in considerazione di quanto dichiarato dal medico di medicina generale nel proprio certificato, il quale peraltro, proprio perché costituente l’oggetto (diretto ed esclusivo) dell’attività di verifica della Azienda sanitaria locale, deve consentire all’Amministrazione di appurare la sussistenza dei presupposti dell’esonero.
La sentenza n. 8454/2021 respinse il ricorso del medico che presentò un certificato con la seguente dizione:” “Si attesta che … risulta essere soggetto esente alla vaccinazione anti Sars-CoV-2. Risulta, infatti, affetto da patologie che non sono oggetto di sperimentazione da parte di alcuna delle Case Farmaceutiche produttrici di vaccini anti-Covid – Tale attestazione viene rilasciata previa valutazione anamnestica dichiarata dal Paziente rispetto alla quale deve trovare rigorosa applicazione il principio di precauzione anche in virtù dell’approvazione meramente condizionata dei vaccini anti Covid”. Nel caso in oggetto non fu appurato neppure, ai sensi dell’ art. 4, comma 2, d.l. n. 44/2021, il collegamento tra le patologie ed il “caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestate dal medico di medicina generale” indicate dalla legge come requisito di validità.
A seguito della richiesta dell’azienda sanitaria, il medico certificatore ribadì la propria opinione senza dettagliare il processo logico e documentale alla base della dichiarazione.
Ebbene, poiché la norma, nella sua formulazione testuale, affermano i giudici di Palazzo Spada, attribuisce al medico di medicina generale il compito di attestare l’”accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate”, ne deriva che di tali elementi costitutivi della fattispecie di esonero deve darsi espressamente atto nella certificazione all’uopo rilasciata: l’”attestazione” delle “specifiche condizioni cliniche documentate”, quindi, non consiste nella (ed il relativo compito non può quindi ritenersi assolto mediante una) mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo”, essendo necessario, ai fini del perfezionamento della fattispecie esoneratrice, che delle “specifiche condizioni cliniche documentate” sia dato riscontro nella certificazione, unitamente al “pericolo per la salute” dell’interessato che il medico certificatore ritenga di ricavarne”.
GIUDICE COMPETENTE A GIUDICARE L’ESISTENZA DI CONDIZIONI CLINICHE ESONERATIVE
Quando la controversia ha per oggetto non la legittimità dell’obbligo vaccinale in sé ma la valutazione del certificato da parte dell’azienda sanitaria, la causa va posta all’attenzione del Giudice del Lavoro e non del Tribunale amministrativo.
Questa è l’opinione della sezione terza del Tar del Veneto espressa nella sentenza n. 142 del 20 gennaio.
A tale riguardo, con riferimento all’attività di certificazione medica, afferma la sentenza, è rilevante rammentare come tanto la disciplina dell’art. 41, d.lgs. 81 del 2008, quanto quella di cui all’art. 55 octies, d.lgs. n. 165 del 2001, prevedono l’adozione da parte dei medici competenti di atti certificativi che, pur essendo finalizzati a tutelare interessi anche pubblici come quello della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro (non solo cioè a beneficio del singolo lavoratore eventualmente inidoneo alla prestazione lavorativa), assumono specifica rilevanza nell’ambito del singolo rapporto lavorativo e non solo non hanno forza vincolante per il giudice di merito (in tal senso si vedano Cass. civ., sez. lav., 10 ottobre 2013, n. 23068; id., 02 agosto 2018, n. 20468), ma, a monte, non costituiscono manifestazione di potere autoritativo, così come non assumono autonoma rilevanza, dovendo formare oggetto di contestazione, avanti al Giudice ordinario, unitamente all’eventuale provvedimento adottato dal datore di lavoro.
La sospensione, quindi, non appartiene alla sfera del diritto pubblico, ma assume anch’essa - così come la declinazione dell’obbligo vaccinale in funzione di idoneità alla prestazione lavorativa - un rilievo, in via diretta, strettamente privatistico perché incide direttamente sul rapporto di lavoro o sullo svolgimento della prestazione lavorativa autonoma, quale effetto della sopravvenuta impossibilità temporanea per inidoneità a svolgere l’attività sanitaria; ciò, si ripete, nonostante che la finalità ultima, ma mediata, del legislatore sia quella di tutela della salute pubblica.
L’ORDINE PROFESSIONALE PUO’ SOSPENDERE PER SEMPLICE MANCANZA DELLA VACCINAZIONE
Il Tar Catanzaro, sez. II, con ord., 13 gennaio 2022, n. 7, ha ritenuto che la delibera Ordinistica di sospensione dal diritto di esercizio dell’attività a seguito della mancata vaccinazione è cosa diversa dall’eventuale mancanza di un atto formale di accertamento dell’inosservanza dell’obbligo vaccinale da parte della competente Azienda Sanitaria e l’impossibilità, da parte dell’Ordine professionale, di surrogarsi a detta azienda nel compito di accertare un fatto (la mancata sottoposizione a vaccinazione) non ne fa venir meno la validità.
Ha quindi richiamato la giurisprudenza secondo la quale “il diritto soggettivo individuale al lavoro ed alla conseguente retribuzione è sì meritevole di protezione, ma solo fino all’estremo limite in cui la sua tutela non sia suscettibile di arrecare un pregiudizio all’interesse generale (nella specie, la salute pubblica), di fronte al quale è destinato inesorabilmente a soccombere, sicché, ove il singolo intenda consapevolmente tenere comportamenti potenzialmente dannosi per la collettività, violando una disposizione di legge che quell’interesse miri specificamente a proteggere, deve sopportarne le inevitabili conseguenze” (Tribunale di Catanzaro, ord. 19 dicembre 2021).
Decisione in linea con il precedente del Consiglio di Stato 6401/2021, secondo il quale “ la prevalenza del diritto fondamentale alla salute della collettività rispetto a dubbi individuali o di gruppi di cittadini sulla base di ragioni mai scientificamente provate, assume una connotazione ancor più peculiare e dirimente allorché il rifiuto di vaccinazione sia opposto da chi, come il personale sanitario, sia - per legge e ancor prima per il cd. “giuramento di Ippocrate”- tenuto in ogni modo ad adoperarsi per curare i malati, e giammai per creare o aggravare il pericolo di contagio del paziente con cui nell’esercizio dell’ attività professionale entri in diretto contatto”.
I GIUDICI DEL LAVORO SI PONGONO QUALCHE DUBBIO SUL BILANCIAMENTO TRA DIRITTO AL LAVORO E SALUTE PUBBLICA
Detto così sembra semplice ma non tutte le attività professionale, anche in ambito sanitario, sono a rischio.
Il dipendente, compreso il sanitario novax, per esempio, potrebbe essere applicato in settori, anche demansionati, che non comportano contatti con il pubblico: televisite, teleriabilitazione, telerefertazione a distanza, assistenza telefonica, servizi prenotazione telefonica ecc.
Sul punto si segnala una ben motivata sentenza del Tribunale di Velletri del 14 dicembre 2021, n. 4236 che ha reintegrato un dipendente di un’azienda sanitaria in base ad una, ad avviso di chi scrive condivisibile, lettura della normativa.
Nello specifico, la lavoratrice infermiera ma addetta a funzioni amministrative era già stata ammessa dall'Azienda convenuta a svolgere prestazioni non a contatto con il pubblico, ovviamente perché ha ritenuto che non sussistessero rischi specifici di diffusione del contagio. In seguito alla decisione ordinistica di sospensione dall’albo la pose in sospensione non retribuita.
L'art. 4, dl. 44/21 afferma la sentenza, ha l’obiettivo di fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza, gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 1° febbraio 2006, n. 43, che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, nelle parafarmacie e negli studi professionali o obbligati a sottoporsi a vaccinazione.
Tuttavia, afferma il giudice, una lettura costituzionalmente orientata induce a ritenere che non in tutti i casi la prestazione degli operatori di interesse sanitario non vaccinati è vietata, ma solo laddove quest' ultima inciderebbe sulla salute pubblica e su adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza. Altrimenti, prosegue la pronuncia, il bilanciamento costituzionalmente rilevante tra la salute pubblica (interesse prevalente) e i diritti della persona (interessi soccombenti) non sussisterebbe, con indebita compromissione dei diritti dei singoli.
Da ultimo, afferma il giudice, si trova conferma nel “comma 7 del nuovo articolo 4 che dice che “per il periodo in cui la vaccinazione è omessa o differita, il datore di lavoro adibisce i soggetti di cui al comma 2 a mansioni anche diverse, senza decurtazione della retribuzione, in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2 conferma che, è vero che è possibile una prestazione di un operatore di interesse sanitario non vaccinato in sicurezza”.
Non si può obiettare, prosegue, che il legislatore lo ha previsto solo per chi sostanzialmente non può vaccinarsi mentre il caso in esame riguarda chi non vuole vaccinarsi.
Questa discriminazione è costituzionalmente facilmente superabile dall' interpretazione, afferma il giudice di merito, perché l' interesse che è costituzionalmente prevalente è la salute pubblica, la quale è messa a rischio ugualmente dal soggetto non vaccinato a prescindere dal fatto che non si sia voluto vaccinare o non si sia potuto vaccinare.
Pertanto, si deve concludere che sia chi non si è voluto vaccinare sia chi non si sia potuto vaccinare possano prestare la loro opera, ovviamente evitando lo specifico rischio per la salute pubblica.
Semmai potrebbe residuare una differenza circa l' ambito di incollocabilità, nel senso che secondo il principio generale del diritto del lavoro un non vaccinato potrebbe anche essere adibito a mansioni inferiori (e dunque percepire una somma inferiore, ovviamente solo in via residuale) mentre nel caso di chi non si sia potuto vaccinare la legge assicura il mantenimento della medesima retribuzione.
IL DATORE DI LAVORO NON HA L’OBBLIGO DI INVENTARSI UN POSTO DI LAVORO
Il Tribunale di Roma nella pronuncia dell'8 dicembre 2021 ha respinto il ricorso d’urgenza per la reintegra di una logopedista, la quale riteneva di poter essere applicabile da remoto.
Nella fattispecie, il giudice ha ritenuto non dimostrata da parte della lavoratrice l’esistenza di mansioni dalla stessa ricopribili “ che comunque non implicano rischi di diffusione del contagio, posto che, come rilevato dalla convenuta, le attività amministrative richiedono attività di front office e/o comunque implicano il necessario contatto con l’utenza all’interno della struttura sanitaria”.


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