Lavoro e professione

Cronicità, quanto vale la performance

di Federico Spandonaro (Università di Roma“Tor Vergata”, presidente Crea Sanità)

Il titolo che la Fimmg ha scelto per il 74° Congresso nazionale è evocativo: recitando «... dalla prestazione alla performance» dà il senso di una rivoluzione copernicana che sottostà al nuovo Accordo collettivo nazionale (Acn). Ma l’affermazione richiede un approfondimento: in effetti i Mmg, in Italia, non sono mai stati pagati a prestazione; il “fee for service, come lo chiamano gli economisti, è il sistema prevalentemente adottato nella specialistica ambulatoriale; i Mmg sono pagati a quota capitaria, un sistema di remunerazione con molti pregi, ma che non premia la meritocrazia; la vera rivoluzione in atto, allora, è quella di legare il compenso al risultato conseguito.

A ben vedere nulla di nuovo sotto il sole: anche tutta la dirigenza sanitaria è ormai pagata con retribuzioni variabili legate alla posizione ricoperta e/o alla produttività. Nondimeno, è la prima volta che un’area così vasta della medicina convenzionata si mette in discussione, rischiando “in prima persona”.

Misurarsi implica, infatti, un rischio, che la categoria dichiara di essere pronta a correre, ben conscia del fatto che dover rendere conto è un dovere sociale, ma anche che, in condizioni di risorse scarse, bisogna prioritarizzare, privilegiando le azioni che dimostrano (mediante una misurazione oggettiva) di produrre “valore”: ne va, quindi, della credibilità della categoria e a cascata del Ssn.

Non si può, quindi, che accogliere favorevolmente la direzione intrapresa per il rinnovo della convenzione, ma bisogna essere consapevoli che la sua applicazione avrà successo solo se si riuscirà a rendere oggettiva la misura della performance: ma questa ultima non è tale per sua natura.

Il progetto “Una misura di performance dei Ssr”, sviluppato dal Crea Sanità, e giunto alla quinta edizione, ha negli anni dimostrato che la misura della performance è variabile nel tempo (risultando legata all’evoluzione delle priorità delle politiche sanitarie), e dipende dall’ottica adottata (diversi stakeholder attribuiscono diverse funzioni di composizione degli indicatori che descrivono le diverse dimensioni della performance).

Per semplificare al massimo, possiamo dire che l’applicazione dell’Acn comporterà in primo luogo la condivisione di cosa misurare e con quale prospettiva farlo. Per provare a indicare una strada, bisogna in primo luogo ricordare che i sistemi di compenso nascono per generare incentivi, e quindi sono in sostanza funzionali a un obiettivo che va chiaramente esplicitato; e l’obiettivo principe ci sembra che rimanga ancora quello del potenziamento dell’assistenza primaria. Infatti, malgrado sia un leitmotiv della politica sanitaria italiana da almeno un ventennio, stenta ancora a delinearsi il modello di assistenza primaria che si vuole promuovere.

Con varie sfumature, il Chronic care model è l’approccio di riferimento, adottato un po’ in tutte le Regioni: il modello, fondamentalmente, si basa sul principio della medicina di iniziativa; approccio certamente condivisibile ed efficace, ma che necessita di essere calato in modo adeguato nelle singole realtà locali.

Il motivo della necessità di adeguamento è che la vera sfida per i sistemi sanitari in generale, ma in particolare per l’assistenza primaria, è la personalizzazione del servizio, trovando un accettabile compromesso nella dicotomia fra risposte di massa e bisogni individuali: operazione decisamente complessa, che ricade in modo rilevante sulle spalle della medicina generale, che assume così un ruolo essenziale di composizione dei molteplici bisogni dell’individuo e della sua famiglia.

Accettando questa visione, si comprende perché misurare la performance nella MG è decisamente sfidante; e si evidenzia, inoltre, come sia il cittadino lo stakeholder di riferimento e quindi sua la valutazione ultima del servizio ricevuto.

I cittadini esercitano quotidianamente il “pay per performance”, premiando i fornitori migliori, non costruendo indicatori, ma essenzialmente “votando con i piedi” (modo che si usa in Economia per dire che compiamo scelte razionali, scegliendo di acquistare/consumare i prodotti maggiormente value for money, premiando i produttori più efficienti).

Questo in Sanità è generalmente difficile, ma non si può non ribadire che la libertà di scelta assume un ruolo essenziale perché possa avvenire: i comportamenti dei cittadini sono sempre alla base della misura della performance. Ne discende, altresì, che l’esito principe da misurare dovrebbe, quindi, essere il contributo dell’assistenza primaria alla qualità di vita dei cittadini/pazienti.

In carenza di misure dirette della percezione dei cittadini sulla qualità della loro vita, il sistema di misura delle performance che materialmente si implementerà sarà, di fatto, ben diverso. Per capirne la possibile struttura possiamo rifarci alla ampia letteratura sui cosiddetti sistemi di pay per performance in assistenza primaria adottati in altri Paesi: da essa sappiamo che generano miglioramenti, anche se solitamente più sul versante della customer satisfacton che non sugli esiti di salute, e che prevalgono le misure di output o tutt’al più gli indicatori intermedi di esito, oltre a misure di offerta.

Sembra doveroso fare due appunti: il primo è che gli indicatori intermedi, sebbene possano essere considerati predittivi degli esiti clinici, ancora non sono tali e un requisito importante affinché lo diventino sono le caratteristiche della popolazione assistita. In altri termini, non è pensabile che si possano ottenere gli stessi livelli (ad esempio) di aderenza, in popolazioni con caratteristiche socio-economiche diverse. Questo porta con sé che la vera difficoltà implementativa è standardizzare adeguatamente gli indicatori.

Il secondo appunto, in verità ancora legato al primo, è che i risultati si ottengono anche in funzione del contesto in cui si opera; per esemplificare il pensiero, se una adeguata “iniziativa” porta a rapide diagnosi, ma poi l’accesso ai servizi specialistici non è altrettanto rapido, gli esiti possono essere vanificati.

Problemi certamente risolvibili, purché si dedichi al tema una adeguata attenzione. E, in ogni caso, non andrebbe sottovalutata la funzione informativa dei sistemi di misura della performance, in quanto, se resi pubblici, permettono di innescare la valutazione diretta degli utenti, che rimane probabilmente il modo più corretto di valutare la performance del servizio.

La nota precedente porta a una ulteriore riflessione, che riguarda la necessità di integrare i processi di misura in una governance complessiva del settore, che esula dai rapporti strettamente contrattuali fra Ssn e Mmg.

Va da sé che senza una adeguata governance, risulta difficile arrivare a una condivisone degli obiettivi, come anche a generare le condizioni per misurarli in modo routinario. Ma la questione della governance va oltre, perché implica anche la revisione dei rapporti fra le varie aree del Ssn e, quanto prima possibile, l’abbattimento dei cosiddetti silos.

Un esempio quantitativo può aiutare a comprendere quanto sia importante questo aspetto; come tutti sanno, il più importante “sponsor” dell’importanza di sviluppare l’assistenza primaria è il processo di invecchiamento della popolazione e la conseguente crescita della cronicità. I numeri ne confermano la dinamica esplosiva: negli ultimi 5 anni la popolazione over 65 è cresciuta dell’8% (circa un milione di abitanti anziani in più), crescendo anche in percentuale del totale della popolazione (+1,5 per cento).

Questa esplosione si riverbera sui ricoveri, ampiamente riconosciuti come la voce maggiore di costo assistenziale: in effetti, sul totale dei ricoveri quelli attribuibili agli anziani sono cresciuti del 3%; ma, a ben vedere, il numero assoluto di ricoveri degli anziani si è ridotto di quasi 500.000 casi, compensando in termini di costi l’aumento della complessità dei ricoveri effettuati. In pratica assistiamo a un fenomeno di compressione della morbilità, che compensa l’onere dell’invecchiamento demografico. Ma la compressione implica uno spostamento in avanti dell’insorgenza delle patologie e delle loro complicanze, tanto che nel complesso della popolazione i ricoveri si sono ridotti del 17,6%, ovvero di quasi 2 milioni di casi, con un potenziale risparmio di circa 5 mld di euro.

Quindi il processo di deospedalizzazione è avvenuto (e anche in modo radicale) evidenziando due questioni; la prima, riguarda la ragionevolezza di continuare a vincolare le riforme dell’assistenza primaria al principio di azioni isorisorse, quando in teoria i risparmi ci sono stati e anche rilevanti: di fatto il problema è che è mancata una strategia per liberare risorse dalla de-ospedalizzazione, spostandole in favore dei cambiamenti necessari sul territorio. La seconda questione riguarda la conseguenza del fatto che non ci sia stata osmosi fra i due silos, per mancanza di una governance complessiva: la de-ospedalizzazione, avvenuta senza un contemporaneo investimento nell’assistenza primaria, ha generato benefici o disagi ai pazienti e ai loro caregiver?

Concludendo, non si può che accogliere con entusiasmo l’idea che la medicina generale (e in generale l’assistenza primaria) si impegni nell’accountability del proprio operato. Ma il processo va gestito all’interno di una nuova governance complessiva dell’assistenza, e con un serio approfondimento sui criteri di misurazione della performance.


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