Lavoro e professione

Dai giovani medici radiologi la disanima del disagio lavorativo che spinge alla fuga verso il privato e qualche suggerimento per salvare il Ssn

di Fabio Pinto *

S
24 Esclusivo per Sanità24

Tra il 25 e il 27 maggio si è tenuto a Colli del Tronto il Congresso del Sindacato nazionale di area Radiologica (Snr). Dalle relazioni tenute, in particolare dai rappresentanti Snr Giovani, partono precise istanze basate su una lucida disamina delle ragioni di disaffezione verso il Servizio sanitario nazionale. Il Congresso si è distinto per la grande partecipazione avuta da tutta Italia assieme alla voglia di raccontarsi dei delegati, dai quadri sindacali più tradizionali ai meno esperti. Medici, prima di tutto, che rivendicano il tempo di cura da dedicare ai malati. Che chiedono alle istituzioni non solo maggiori risorse finanziarie, ma soprattutto il tempo per il confronto coi colleghi, per le decisioni terapeutiche, per interpretare un referto, cosa che non può fare una macchina, per quanto intelligente sia. Tempo, diventato ancora più prezioso dopo la pandemia, dopo la fuga dal sistema sanitario pubblico di chi doveva essere premiato per aver combattuto, spesso a mani nude, e si è trovato invece a dover rivendicare, o mendicare, di poter lavorare con ritmi adeguati, ora che la paura è passata. È un po' la storia di tutte le guerre e dei tanti fanti dimenticati.
Gloria Addeo, rappresentante Snr Giovani, è entrata nel vivo dei problemi del Ssn, partendo dalle cifre del problema: «Chi lavora in ospedale oggi ha assunto anche il carico di chi se ne andato e di chi non è stato assunto. La pandemia è andata a esasperare problemi già esistenti. Non è la carenza di medici a preoccupare, ma la carenza di specialisti, dovuta all’imbuto formativo esistente sin dai tempi della spending review. La formazione di uno specialista costa all’erario 150.000 euro. Ma 20.000 se ne sono già andati, fuggendo verso il privato per l’incremento insostenibile del 70% dei carichi di lavoro. Un sanitario su due è in burn out».
I numeri della debàcle
A gennaio 2021, erano poco meno di 400.000 i medici iscritti all'albo dei medici. Di questi, il 53% (circa 209.000) non possedeva un titolo di specializzazione. Se per i non specialisti vi sono difficoltà a reperire dati precisi riguardo la loro distribuzione, degli specialisti attivi circa 117.000 (su un totale di 189.000) lavoravano nel Servizio sanitario nazionale. Se valutiamo i dati dell'Ocse relativi al 2020, in Italia abbiamo un tasso di medici attivi di 4 per mille abitanti, addirittura di poco superiore alla media europea: questo dato sottolinea ulteriormente la drammatica carenza di specialisti.
Tra il 2020 e il 2021, si è verificato un incremento del personale a causa dell'impatto della pandemia e dei relativi decreti di emergenza. Ciò nonostante, è tangibile un'onda di grandi dimissioni negli ultimi due anni, causata dall'emergenza pandemica che ha esasperato le già difficili condizioni di lavoro già presenti a causa della mancanza di turnover e della riduzione degli organici a seguito di anni di blocco delle spese per il personale.
Dove si stanno dirigendo i medici? Secondo i dati dell'Ocse, negli ultimi vent'anni ben 131.00 medici hanno scelto di emigrare all'estero, di cui 21.000 solo nel triennio 2019-2021. È importante considerare che la formazione di ciascun medico comporta un costo per l'erario pubblico di circa 100.000 euro per il medico appena laureato, cifra che aumenta a circa 150.000 euro quando il medico acquisisce il titolo di specialista. In pratica, stiamo donando ad altri paesi un capitale umano già formato. Questi medici sono per lo più giovani specialisti alla ricerca di migliori opportunità, oltre che neolaureati desiderosi di accedere alle scuole più prestigiose.
Per quanto riguarda la fuga dagli ospedali pubblici, si tratta di medici nella fascia d’età compresa prevalentemente tra i 45 e i 55 anni, che scelgono il settore privato, alla ricerca di una migliore qualità di vita e di una maggiore valorizzazione economica. Altri ancora scelgono di lavorare come consulenti o con contratti a progetto. Nel 3% dei casi, addirittura, alcuni medici decidono di abbandonare completamente la professione.
Alcuni sostengono che con l’incremento degli ultimi tre anni del numero delle borse nelle scuole di specializzazione, al 2026 il numero di nuovi specialisti nel Ssn (75% del totale) sarà pari a 39.244. Circa 10 mila specialisti in più rispetto al numero di pensionati e comunque in numero superiore anche tenendo in considerazione i dati delle dimissioni.
E che dire della attrattività del lavoro in ospedale verso i neo-specialisti? Negli ultimi due concorsi di specializzazione (2021 e 2022) il 13% delle borse risulta non assegnato e addirittura la posizione nel 5% risulta abbandonata durante il percorso di formazione. Le discipline che più risentono di tale emorragia sono la medicina d’emergenza-urgenza con ben il 60% dei contratti non assegnati (è anche il settore dove attualmente si registra il maggior numero di dimissioni volontarie), la radioterapia, la microbiologia e virologia, la patologia clinica e biochimica, l’anatomia patologica e la medicina di comunità e delle cure primarie (specialità con scarsa o assente possibilità di impiego nel privato o di attività libero-professionale).
Al contrario, le discipline che hanno notevoli sbocchi lavorativi nel settore privato non presentano alcuna perdita rispetto ai contratti finanziati come ad esempio la dermatologia, l’oftalmologia e la cardiologia.
La specificità della questione radiologica
Il radiologo ha visto un incremento esponenziale del lavoro assieme alla trasformazione nel digitale. In passato, dovevamo recarci in una sala di sviluppo per elaborare le radiografie, ma ora, grazie a sistemi più efficienti, siamo relegati in stanze dove dobbiamo refertare un numero sempre maggiore di esami gravati da maggiore complessità.
Se da una parte questo incremento produttivo può essere considerato "fisiologico" cioè legato al maggiore ricorso alle metodiche di diagnostica per immagini, altrettanto non si può dire del sovraccarico lavorativo causato dalla chiusura di 111 ospedali e di 113 Pronto soccorso, avvenuto tra il 2010 e il 2020, insieme alla riduzione di 37.000 posti letto ospedalieri.
Questa situazione ha determinato una congestione delle strutture di pronto soccorso, con crescita costante delle prestazioni sanitarie richieste in regime di emergenza-urgenza.
È importante sottolineare che solo una piccola parte di queste prestazioni è dovuta a condizioni acute, mentre la maggior parte riguarda patologie che potrebbero essere gestite in regime ambulatoriale. Tuttavia, a causa della carenza di servizi medici nel territorio, delle lunghe liste di attesa e dell'impossibilità per le fasce economiche più deboli di rivolgersi al settore privato, queste persone affollano il Pronto soccorso.
Per la radiologia, questo si è tradotto in un ricorso massiccio alla Diagnostica per Immagini, che viene utilizzata come discriminante tra ricovero e dimissione del paziente. Abbiamo assistito a un aumento esponenziale delle prestazioni panesploranti, come la TC e tutto questo senza alcun riconoscimento in sede contrattuale alla Diagnostica per immagini, in ambito Dea, quale servizio funzionalmente connesso al Ps. La carenza di personale per mancanza di specialisti, blocco delle assunzioni e fuga di medici (Ssn) costringe il personale rimasto in servizio a lavorare anche per coloro che se ne vanno e per chi non è stato assunto, violando spesso la normativa europea in materia di orario di lavoro. Si superano le 12,50 ore al giorno, si effettuano tra 15 e 20 turni di reperibilità al mese e si lavorano più di cinque notti, poiché la clausola "di regola" presente nel contratto ancora vigente già scaduto non viene considerata come una norma vincolante. Inoltre, non vengono garantiti i riposi immediatamente successivi ai turni notturni, quindi capita spesso di lavorare per tutta la notte, smontare e poi svolgere altre dodici ore di servizio. È anche possibile trovarsi in turno di mattina dopo aver lavorato durante la notte precedente in regime di pronta disponibilità. Le tre ore e mezza settimanali dedicate all'aggiornamento professionale vengono completamente assorbite dall'attività assistenziale. L'impegno in termini di ore aumenta ulteriormente a causa dell'utilizzo dell'attività aggiuntiva durante la pianificazione dei turni. Se a ciò si aggiunge un pressoché completo blocco delle carriere, che impatta in modo evidente proprio su quella fascia di età che decide di abbandonare il Ssn, si comprende chiaramente come lavorare nella Sanità pubblica italiana diventi, giorno dopo giorno, sempre meno gratificante e sempre più faticoso.
Come intervenire
Cosa rende il lavoro in ospedale non attrattivo agli occhi di un giovane specialista e cosa spinge i diversamente giovani a lasciare l’ospedale? E quindi dove intervenire per evitare il collasso del Ssn tra due-tre anni? Bisogna prendere atto che chi fa le guardie notturne fa un lavoro più stressante rispetto a chi non le fa. È dimostrato, anche in letteratura, che il lavoro notturno ha effetti negativi sulla salute, interferendo con i ritmi circadiani e causando una disconnessione tra il ciclo sonno-veglia. Ciò produce effetti negativi sulle funzioni cognitive, riducendo la capacità di concentrazione, la memoria, la velocità di elaborazione delle informazioni e la vigilanza. Aumenta la probabilità di commettere errori e di avere incidenti sul lavoro, soprattutto in lavori che richiedono alta concentrazione, reattività e attenzione. Inoltre, il lavoro notturno aumenta il rischio di malattie come il diabete e, soprattutto, quelle cardiovascolari.
In molti presidi periferici in cui vi è la reperibilità sostitutiva viene utilizzata la tele-radiologia per talune tipologie di esami. Questo crea ulteriore stress, poiché si deve gestire contemporaneamente il paziente in sede e assolvere le chiamate in tele-radiologia provenienti da altro stabilimento.
È fondamentale considerare che con circa 60 notti all'anno non si raggiunge neanche lo status di lavoro usurante e, di conseguenza, non se ne godono i relativi benefici. Pertanto, è necessario aumentare l'indennità per le guardie notturne (soprattutto considerando che un gettonista guadagna più di 1000 euro per una notte) e, soprattutto, modulare tale indennità in base al fatto che venga svolta in reparti di degenza o nei servizi di Pronto Soccorso.
Come è cambiata la retribuzione nel settore sanitario? Nel comparto sanità si è registrato un andamento piatto della retribuzione per circa 10 anni a causa di mancati rinnovi contrattuali. Gli stipendi hanno perso potere d'acquisto, aggravato dai recenti aumenti dell'inflazione. Inoltre, il regime fiscale in Italia è uno dei più alti in Europa, con una tassazione che arriva al prelievo del 43% della retribuzione lorda, senza contare le tasse regionali e locali.
Dal punto di vista della carriera, le cose vanno ancora peggio. Rispetto al passato la progressione di carriera dipende dagli incarichi professionali e/o gestionali e alla verifica dei risultati raggiunti. Circa il 50% delle aziende ospedaliere non ha applicato il precedente contratto 16-18, per il quale è obbligatorio assegnare gli incarichi professionali a tutti i dirigenti una volta superato il periodo di prova. Solo il 7% dei medici dipendenti del Ssn raggiunge ruoli apicali di carriera, che sono contingentati secondo il contratto. Da un lato, non si aumenta il valore economico delle posizioni e, dall'altro, non vengono assegnate nuove posizioni. Per l'assegnazione degli incarichi professionali, sarebbe auspicabile tenere meno in considerazione l'anzianità e favorire i giovani dirigenti con capacità professionali, basandosi sulle valutazioni di performance di tipo meritocratico. Potrebbe essere introdotta una valutazione meritocratica basata sull'analisi di parametri quantitativi e qualitativi. Non è accettabile che un dirigente debba aspettare cinque anni per raggiungere l’inizio della crescita professionale.
Bisognerà infine lavorare per migliorare le condizioni di lavoro e intervenire sul welfare aziendale. Lavoriamo spesso a diretto contatto con un'utenza sempre più aggressiva a causa dei lunghi tempi di attesa e delle difficoltà nell'accedere alle cure. Ci troviamo ad affrontare continui attacchi verbali e fisici, mettendo a rischio la nostra incolumità personale. Lo stress, l'aumento dei carichi di lavoro, la disorganizzazione e l'eccessiva burocratizzazione, il non poter fare formazione ci espongono a un maggiore rischio di commettere errori. A tutto ciò si aggiunge la campagna mediatica che "sensibilizza" i cittadini a cercare cospicui risarcimenti per presunti errori medici. Infine, alle nostre richieste di aiuto rivolte ai decisori ci viene risposto che è necessario ridurre ulteriormente il tempo dedicato alla cura aumentando il numero delle visite e delle prestazioni senza salvaguardarne la qualità, in nome di un sistema economicistico basato sui numeri. Urge una visione di insieme e capire se l’eccesso di domanda di prestazioni sanitarie corrisponda ad una reale esigenza di salute. L’invecchiamento della popolazione ha portato a un aumento dell'aspettativa di vita, nonché a una maggiore presenza di comorbilità e patologie croniche che potrebbero essere gestite a livello territoriale anziché ospedaliero. Tuttavia, nel corso degli anni, le aziende sanitarie locali sono state depotenziate e manca un adeguato sistema di cure territoriali.
È necessario rivedere le priorità e la classificazione delle richieste, considerando che ormai tutte sono considerate urgenti. La medicina difensiva, in cui i professionisti adottano pratiche eccessivamente caute per timore di azioni legali, costa annualmente circa il 10% della spesa sanitaria totale. Le voci più significative riguardano: test strumentali e analisi di laboratorio. Considerando che ogni anno in Italia vengono presentate 35.600 nuove azioni legali, mentre ne giacciono 300 mila nei tribunali contro medici e strutture sanitarie pubbliche. Cause che nella maggior parte dei casi si risolvono in un nulla di fatto, e che il 97% dei procedimenti penali si conclude con l'assoluzione. Questo utilizzo improprio del processo penale per atti medici dovrebbe portare ad una revisione profonda della giurisprudenza, nella direzione della depenalizzazione dell’atto medico.

* Segretario nazionale Sindacato Area radiologica Snr-Fassid


© RIPRODUZIONE RISERVATA