Medicina e ricerca

La battaglia contro l’Hiv e la sfida di invecchiare «normalmente»

di Massimo Andreoni (direttore Uoc Malattie Infettive e Day Hospital Dipartimento di Medicina, Policlinico Tor Vergata, Roma)

A distanza di oltre 30 anni dall'isolamento dell'Hiv, oggi in Italia si stima che ci siano circa 140 mila persone con infezione e circa un 25% non sa di esserlo. Secondo gli ultimi dati dell'Istituto superiore di sanità, nel 2015 sono state riportate 3.444 nuove diagnosi di infezione da Hiv, pari a 5,7 nuovi casi per 100.000 residenti, la maggioranza delle quali attribuibile a rapporti sessuali non protetti, che costituiscono l'85,5% di tutte le segnalazioni.

Negli ultimi due decenni sono stati fatti importanti passi in avanti nella gestione dell'Hiv. Oggi la maggior parte dei pazienti che ricevono una diagnosi precoce e seguono correttamente la terapia con antiretrovirali riesce ad arrivare a una viremia non rilevabile, una situazione che porta moltissimi benefici dal punto di vista clinico: bassissimi rischi che l'infezione degeneri nella fase conclamata della malattia (l'Aids), di sviluppare resistenza ai farmaci, o di trasmettere il virus.

La battaglia contro il virus quindi ha dato in questi anni ottimi risultati ma è tutt'altro che conclusa. Oggi, la nuova sfida, si chiama «invecchiare con l'Hiv». Nuove terapie e nuovi strumenti di diagnosi e gestione delle persone con Hiv rendono, infatti, il traguardo di invecchiare ‘normalmente' con l'Hiv sempre più vicino e possibile.

Questo tema è al centro dei più rilevanti incontri nazionali e internazionali sull'Hiv a partire dal Croi (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections) di Seattle e del convegno “PROs (Patient Reported Outcomes), un'opportunità per guadagnare in salute globale” organizzato a Roma a inizio marzo.

Dall'edizione 2017 del Croi in particolare si è avuta la conferma che le nuove sfide per infettivologi, caregiver e gli stessi pazienti sono legate a una gestione dell'infezione a lungo, lunghissimo termine, che tenga conto dello stile di vita e dell'esposizione cronica alle terapie antiretrovirali.

Avere pazienti di età più avanzata vuol dire doversi confrontare non solo con le patologie strettamente correlate all'infezione da Hiv ma anche con quelle caratteristiche dell'anziano. Le comorbosità nei sieropositivi si manifestano prima rispetto al corrispondente sieronegativo di pari età.

La complessità clinica del paziente necessita quindi di un programma assistenziale in grado di cogliere gli aspetti medici, psicosociali, funzionali e tutte le limitazioni proprie delle persone anziane. Queste valutazioni devono permettere di personalizzare l'intensità di cura (intervalli tra le visite e invio in centri di riferimento multi specialistico) necessaria ai pazienti e lo sviluppo di percorsi condivisi tra la medicina di base e la medicina specialistica.

Fondamentale diventa quindi l'inquadramento clinico del paziente attraverso la valutazione del rischio globale per una determinata comorbosità attraverso livelli successivi di valutazioni e azioni che possono richiedere interventi specialistici. La valutazione del rischio specifico può essere fatta mediante algoritmi di vulnerabilità individuale che permettono di individuare i pazienti che possono beneficiare di interventi di prevenzione primaria per patologia non infettiva, stratificando la popolazione in soggetti a rischio aumentato o non aumentato.

Da sottolineare però che mentre la terapia antiretrovirale ha cambiato completamente le prospettive di vita delle persone con Hiv, le condizioni sociali non si sono evolute alla stessa velocità e sono per molti aspetti rimaste quelle di 20 anni fa. Molti pazienti lamentano ancora uno stigma della loro condizione; Il timore di essere trattati diversamente li costringe ad allontanarsi, isolarsi e non parlare della propria condizione nemmeno con le persone più vicine. Ecco quindi un altro ostacolo, questa volta di tipo culturale, che bisogna tutti insieme riuscire a cancellare in tempi rapidi.


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